Che spettacolo triste, questi fantasmi! Si esce con un sentimento di angoscia a malapena represso dal Fabbricone di Prato, dove abbiamo visto The Ghosts, ultima creazione di Constanza Macras. E ci si chiede istintivamente dov’è andato a finire il piacere del gioco con cui la giovane coreografa porteña ci aveva conquistato, lo spirito allegro con cui fin dall’inizio ha messo in scena uno spaesamento che è anche nostro, davanti a un mondo forse globalizzato ma non per questo privo di disuguaglianze e contraddizioni. Chi ricorda la variopinta carovana Rom convocata dall’artista argentina (ma berlinese d’adozione) nel trascinante Open for everything che si era visto l’anno scorso a Udine, può capire di cosa parliamo. Una sarabanda di danze e canzoni, le donne dalle gonne colorate fatte volare in un ballo collettivo, gli uomini impegnati in individuali esibizioni delle proprie abilità. Racconti agrodolci di storie di vita tutte un po’ uguali, senza mai cedere al vittimismo o trovare rifugio nel sentimentale.

 

 

 
Qui le abilità che lo spettacolo ci mostra sono quelle circensi di un gruppo di acrobati cinesi. Tre ragazzine che sembrano poco più che bambine, anche se i pochi anni di differenza d’età contano nel creare una gerarchia, due sono sorelle; lo zio che è stato il loro maestro e si esibisce ancora con loro. Un gruppo familiare insomma, che Macras e la sua compagnia Dorky Park hanno incontrato nella provincia meridionale di Guangdong, oggi una delle più prospere della Repubblica popolare cinese. Artisti di strada. Il loro pubblico è rimasto quello degli anziani, delle fiere, dei matrimoni…

 

 

 
Ecco una luttuosa processione di donne dai lunghi capelli neri, tutte vestite di bianco, che avanzano facendo ruotare dei piccoli piatti in cima a un fascio di sottili canne. Un giocoliere gira vorticosamente su di sé facendo vibrare nell’aria una trottola sonora.

 

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Le tre ragazze, ora in short e maglietta, costruiscono mutevoli piramidi umane salendo sulle spalle o la testa l’una dell’altra, rivelando una forza insospettabile sotto quei corpi all’apparenza esili. Poi sulla parete verticale che funge anche da schermo, alle spalle della pedana rialzata che occupa una larga parte della scena, compaiono delle immagini. Una di loro, la più giovane, quindici anni, comincia a raccontare la propria storia. Mostra le immagini della città dove vivono.

 

 

 

 

La Cina di oggi, dice. Con i grattacieli che svettano come alberi nella foresta. Però di quella Cina non vediamo niente, non vedremo niente. Né i grattacieli né i centri commerciali o i ristoranti pieni. Qualcosa un poco alla volta comincia stridere, non sono soltanto le fragorose percussioni metalliche che dal fondo accompagnano le azioni. Qualcosa si strappa, nello spazio che si è aperto si rivela una realtà inaspettata. Un mondo scomparso che d’improvviso ritorna attuale in quei corpi. La povertà di famiglie che non potevano mandare i figli alla scuola. Le bambine date in adozione quando arrivava un figlio maschio. Il circo acrobatico come possibilità di sopravvivenza.

 

 

 
Come avviene da tempo, ogni spettacolo di Constanza Macras nasce da un viaggio. E si trasforma in un viaggio che coinvolge lo spettatore. Non fa differenza se si tratta di mete lontane come l’India di Big in Bombay o se il viaggio si arresta sotto casa, nel quartiere berlinese di immigrazione turca visitato nel più lontano Scratch Neukölln. Se ci si inoltra nella memoria delle quattro donne di The Past sopravvissute alla distruzione di Dresda o nell’immaginario paradiso artificiale di Brickland. Ciò che conta è lo sguardo con cui si affronta il viaggio. Lo sguardo con cui si va incontro all’altro, all’immagine dell’altro. Che qui ha uno scarto. Mette da parte gli stereotipi con cui ha sovente giocato il lavoro di Macras per mettersi di fronte a una realtà che non può essere in alcun modo rappresentata, che non può darsi che così com’è. Con i suoi fantasmi.

 

 

 

 

Non è un caso forse che i danzatori della compagnia sembrino qui farsi da parte, o come l’impeccabile Fernanda Farah si siano trasformati in acrobati capaci di volteggiare senza rete appesi al drappo rosso che cala dall’alto; quel linguaggio coreografico così riconoscibile che era stato capace di assorbire la street dance dei ragazzini di Scratch Neukölln così come le danze gitane di Open for everything appare solo per bagliori, come una citazione. Una corsa circolare, un rotolare a terra facendo perno su un braccio. La forza gravitazionale si è invertita.

 

 

 
La costruzione drammaturgica, firmata com’è ormai abitudine da Carmen Mehnert, parte da quelle atroci storie familiari per sprofondare in un mondo fantastico di mangiatori di carne umana e di fantasmi che vogliono ritornare e per questo prendono il corpo di un altro. Donne bellissime che si dissolvono alla luce di una lampada. Uomini che le prendono in moglie rinunciando a dar loro la caccia. Un mondo magico che il potere centrale aveva combattuto come «superstizione», sopravvissuto non solo come genere letterario.

 

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E intanto sulla pedana si susseguono altre prove di quelle mostruose abilità apprese a costo del l’annullamento di un’altra possibile vita, un’infanzia e una giovinezza negate. Esercizi di contorsionismo che si fatica a guardare. Una sorta di danza del ventre. L’apparire di vaporosi abiti rossi. Una canzone rabbiosa cantata dall’uomo più anziano. E ancora il riproporsi di quelle precarie piramidi di corpi. Fino a quell’ultimo numero, quasi straziante, far ruotare un tavolo tenuto in equilibrio sui piedi, in modi sempre diversi e pericolosi. A un certo punto si vorrebbe dire basta.

 

 

 
E allora ci si accorge che i fantasmi di cui ci parlano sono loro. Sono quei corpi che nascondono un lungo dolore dietro il sorriso privo di allegria indossato come una divisa professionale, è l’espressione che bisogna avere. E ci parlano forse di altri corpi di cui non riconosciamo il dolore. È questa la traccia che lascia The Ghosts. Forse questa volta Constanza Macras ci ha divertito di meno, ma ancora una volta è stata capace di sorprenderci e di mettere in discussione il nostro posizionamento, il modo in cui guardiamo le cose.