Uno dei grandi meriti del libro di Gianluca Solla, Memoria dei senzanome. Breve storia dell’infimo e dell’infame (ombre corte, pp. 169, euro 16) è sicuramente quello di fare chiarezza su di un concetto molto noto alla tradizione del lessico marxista: Lumpenproletariat, con cui si indica quello strato della popolazione parigina arruolato da Luigi Napoleone per combattere la classe operaia insorta e, di seguito, per sostenere il suo colpo di Stato nel 1851.

Educati e abituati dalle traduzioni italiane esistenti de Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte di Marx, i lettori sono portati a identificare il significato di questa parola con quello di «sottoproletariato», quando, invece, dovremmo, seguendo le indicazioni di Solla, riportarlo a quello letterale di «proletariato straccione», perché Lumpen, in tedesco, «sono gli stracci». Naturalmente, se si riducesse a questa chiarificazione semantica la proposta teorica dell’autore lascerebbe il tempo che trova. Solla tiene assieme riflessione lessicale e analisi politica.

La ragione della feccia

Al di là di tutte le sublimazioni agite da una potente e controllata scrittura filosofica che consente di trasporre sul piano rappresentativo una serie quanto mai eterogenea di fenomeni sociali molto complessi (dalla vita quotidiana nella Baghdag di oggi allo statuto del reportage fotografico fino ad arrivare alla lotteria, solo per fare qualche esempio) e di evitare così ogni dovuta verifica empirica delle proposizioni formulate, è proprio il terreno dell’analisi politica quello più sicuro su cui collocare il lavoro di Solla e valutarne la portata.

Quindi, per spezzare il circolo incantato di questa scrittura magica e per tirare fuori il suo autore da quella artificiale «potenza del pensiero» che fa credere al filosofo di poter assegnare significati a una realtà sociale molto articolata osservata nella quiete del suo studio, è necessario ridurre Memorie dei senzanome al dibattito politico, antico e nobile, che lo anima: quella tra marxisti e anarchici, tra Marx e Bakunin.

Con questo ritorniamo al «proletariato straccione». Per Solla il chiarimento semantico porta a un’analisi politica. La durezza con cui Marx stigmatizza questa specie di proletariato («feccia di tutte le classi»), dipende, per l’autore, non tanto dal fatto che siano stati militarizzati per abbattere la rivoluzione operaia francese, quanto «dal timore che questi straccioni plebei rivendichino lo statuto di ultima delle classi… È per questo motivo che Il 18 Brumaio è, in buona sostanza, una narrazione ossessionata dalla presenza del Lumpenproletariat che da vicino minaccia non solo il buon esito della vocazione rivoluzionaria del proletariato, ma anche la stessa evidenza dei concetti che sono stati utilizzati per costruirla e per difenderla. L’orrore, la sorpresa, il timore valgono proprio per la possibile confusione che potrebbe nascere tra il proletariato, classe destinata a riscrivere la storia di tutta l’umanità, e questi Lumpen, questi stracci d’umanità che si lasciano facilmente corrompere, scrivendo una pagina vergognosa della storia delle lotte per l’emancipazione».

Stigmatizzati ed esclusi da Marx, questi straccioni diventano per Solla il modello di tutte le forme contemporanee di rivolta (dalle Black Panther alle Banlieue a Rosarno), perché sono proprio quegli stracci a ribellarsi, per poi sparire, in ogni angolo del mondo e al di fuori di ogni logica rivoluzionaria, in particolare da quella che presuppone l’esistenza di un soggetto politico forte ancora legato alla condizione del lavoro: «La stessa parola “Lumpen” indica allora forse qualcosa come il debordare da forme già date, come quella di classe, che costituiscono altrettante identità fittizie… emergere di lotte che rimangono irriducibili alla nozione stessa di “lotta di classe”, che invece ha preteso di incorporarle tutte e di tradurle in azione politica».

Questo attacco a Marx e al marxismo (dal movimento operaio fino a quello anacronistico al socialismo reale sovietico) ha senso solo se la si colloca nella tradizione politica a cui Solla appartiene, quella anarchica bakuniana. È difficilissimo trovare nella produzione filosofica contemporanea italiana analisi attente e sofisticate come quelle che l’autore dedica, sorprendentemente, a Bakunin, suo effettivo referente teorico contro Marx: «in realtà Bakunin insiste piuttosto sui Lumpen come espressione della superiorità delle gioia contro l’ordine, intendendo con la prima quanto in ogni vita è in grado di emanciparsi dalle appartenenza o dalle identità che dovrebbero definirla, ma che finiscono immancabilmente per legarla a una falsa immagine, che garantisce appunto l’ordine e dunque la collocazione di controllo sulle esistenze».

Restituito alla sua tradizione politica, Memorie dei senzanome attualizza una delle grandi discussioni che hanno segnato la storia marxismo, e torna a dare parola all’anarchismo in sede di riflessione filosofica.

Ora, però, non bisogna fare credito a Solla di un’ingenuità eccessiva, credendo che argomentazioni di questo tipo e di tale serietà non suscitino da parte marxista una risposta e aprano un dibattito epistemologico, lavoristico e politico.

In primo luogo, quella che l’autore chiama «lista», cioè l’elenco stilato da Marx degli appartenenti al «proletariato straccione» (vagabondi, galeotti, evasi, imbroglioni, bari, tenutari di bordello, accattoni e così via), è la messa in opera di un principio di classificazione strettamente sociologico con cui, classificando, si definisce una classe logica di agenti sociali e così facendo la si fa esistere innanzitutto epistemologicamente. In secondo luogo, questa classe logica non è così eterogena come sostiene Solla, il fattore che connota la sua unità è l’esclusione dai processi produttivi di tutti gli attori sociali che la compongono. In terzo luogo, nella sua esistenza concreta, questa classe logica è stata militarizzata per reprimere nel sangue la rivoluzione operaia francese. Come dire, Marx aveva le sue ragioni, teoriche e politiche, per diffidare di questi straccioni.

Ora, al di là di tutto ciò, le ragioni profonde di un dialogo con Memorie dei senzanome, vanno cercate altrove, a partire da una domanda.

La paura del capitale

In un dialogo presente in Vineland, romanzo dello scrittore americano Thomas Pynchon, uno dei protagonisti, Hector Zuñiga, poliziotto della narcotici paradossalmente intossicato dalla tv, dice a Zoyd Wheeler, «strippatone» della generazione anni ’60: «Ordunque, Zoyd, nel chiuso dell’intimo tuo, poniti questa domanda a mo’ di esercizio spirituale zen: “Chi di noi si è salvato?”». Parafrasando, si chiede a Solla: «nel silenzio della tua anima chiediti, di chi mai ha avuto davvero paura il Capitale?». Degli anarchici senzanome o della classe operaia organizzata nelle sue forme di lotta e di rivendicazione? Di chi ha paura Jeff Bezos, padrone di Amazon, durante il periodo natalizio, quando è costretto ad assumere una quantità notevole di lavoratori interinali per smaltire gli ordini, dei senzanome o dei nuovi operai dell’immateriale finalmente riuniti nel sindacato tedesco Ver.di?