Baamum Nafi (Il padre di Nafi) opera prima di Mamadou Dia, che ne è anche lo sceneggiatore – senegalese, studi in America, in uno stile semplice, capace di dialogare con le «lezioni» dei fondatori del cinema africano come Sembene Ousmane rappresenta al tempo stesso una scommessa per le nuove generazioni del cinema africano a partire dalla produzione Targato Senegal non è stato co-finanziato in Europa (a parte fondi quali l’olandese Hubert Bals e il Talent Lab del Toronto Film Festival) e nemmeno dalle istituzioni pubbliche senegalesi ma è stato prodotto in modo indipendente dallo stesso regista .«Il soggetto era delicato, si parla di religione, di politica, di terrorismo non volevo interferenze. Così ho cercato il sostegno degli amici» spiega. Che significa rivedere un sistema che per molti registi africani ha rappresentato una forma di colonialismo dell’immaginario imponendo luoghi, temi, paesaggi – come l’occidente si aspetta di vedere l’Africa.

Siamo in Senegal, in una cittadina immaginaria del nord sul confine con la Mauritania, che nella realtà è dove il regista è nato, una scelta anche questa determinante nell’esito del film, ma potremmo essere in molti altri luoghi del continente dove oggi gli attacchi dei gruppi terroristici dilagano imponendo le proprie leggi. Il protagonista, a cui dà vita lo splendido Alassane Sy – «Lo avevo in mente sin da prima di cominciare» dice ancora Mamadou Dia – è l’imam del villaggio, spirito aperto, crede nella parola e nella scelta rifiutando prevaricazioni e violenza, fragilizzato dalla malattia che è più di una metafora: quel suo sottrarsi al confronto gli viene rimproverato dalla moglie, dalla figlia come una forma di debolezza se non di codardia quando ritorna il fratello, anche lui imam, legato a un gruppo terrorista che vuole imporre la sharia, per chiedere in sposa sua figlia. I due ragazzi si vogliono bene ma i padri sono contrari. Che fare?

Il film non è però soltanto il racconto di un conflitto familiare, di una storia d’amore impossibile come Romeo e Giulietta o dello scontro tra opposte interpretazioni dell’Islam: tutto questo diviene una riflessione sul presente che passa attraverso i personaggi, le loro scelte e i loro sentimenti, in una forma «didattica» (rossellinianamente) , dunque politica e mai didascalica.

È qui, tra le molte contraddizioni e in quanto ciascun personaggio rappresenta che appare la realtà, come funziona la diffusione dell’integralismo, le responsabilità di politici e religiosi, l’avidità, la paura, la miseria, il compiacimento della violenza. Di fronte all’assenza dei governanti, un sindaco che si fa vedere solo in periodo di elezioni, alle carestie, all’ignoranza il fanatismo trova presa facile aiutato dalla quantità di soldi con cui gli sceicchi armano i gruppi per controllare il territorio ma anche nell’indifferenza, in chi come il protagonista non si assume responsabilità più nette.

A imporsi sui due fratelli è solo la nonna, la loro madre, figura autorevole di donna di fronte alla quale tutti hanno rispetto. Ma quando finisce qualcosa si rompe – per sempre? – nella comunità e il prezzo lo pagano i più giovani. Chi come il figlio dell’imam integralista sogna di essere danzatore, o chi come la figlia dell’imam moderato di studiare all’università, giovani generazioni in fuga senza riferimenti, o che si fanno assorbire dagli integralismi per opporsi al vuoto, per distrazione, per rabbia o protesta contro dei padri che in diverse maniere cercano di imporre la propria legge.

La scelta di produrre il film in modo autonomo, senza finanziamenti di stato in Senegal o coproduzioni europee ne ha determinato il risultato finale?
Il Senegal è un Paese per il 90% musulmano, non è repressivo ma certi temi sono complicati da affrontare. Temevo che potessero chiedermi di rivedere la sceneggiatura, di togliere dei passaggi, di semplificare i personaggi che non volevo in alcun modo fossero schematici, e così ho deciso di produrlo io stesso. Il fatto di girare nella mia città, Matam, ci ha aiutati, per esempio nel casting, e nel supporto che abbiamo avuto da tutti. Non erano mai stati fatti dei film lì e questo ha acceso la curiosità delle persone. Tutti volevano partecipare, aiutarci e alla fine è stato un po’ così.

Rispetto al cinema africano del passato cosa è cambiato oggi?
Abbiamo la grande chance di lavorare coi nostri mezzi. Non c’è più come prima un regista africano che dipende sul piano tecnico dall’estero, ci sono tecnici africani, attori africani… Questo aiuta moltissimo anche un regista, ci si capisce meglio, si condividono le esperienze. Molti degli attori non parlavano francese, prima di girare abbiamo lavorato con ognuno di loro sui personaggi senza fargli ripetere le stesse scene del film. Abbiamo lasciato da parte il dialogo utilizzando una piccola telecamera per abituarli alle riprese, alcuni come Nafi e la sua amica erano amiche nella realtà e anche questo è entrato nel film.

Al centro della storia ci sono due uomini, due fratelli entrambi imam che esprimono una visione antitetica dell’islam. Però «Il padre di Nafi» dalla dimensione famigliare si allarga a quella collettiva della società indagando il funzionamento dell’integralismo nella società.
Ho lavorato come giornalista in Africa e in Senegal, ero a Timbuktu quando sono arrivati gli integralisti, sembrava incredibile eppure i segnali erano molto evidenti. E in America, dove ho fatto il mio master in cinema, nessuno pensava che Trump diventasse il nuovo presidente eppure ora è lì. Quando in un sistema qualcosa implode è molto facile per gli estremismi più reazionari affermarsi, sta accadendo anche in Europa, da voi in Italia… Sono pericolosi perché non scompaiono mai, si nascondono come i serpenti sotto la sabbia e rialzano la testa appena ne hanno l’opportunità. E non parlo solo della religione, avviene quando le persone cercano una risposta concreta e non trovano che il vuoto. Nel film si vede che l’imam integralista conquista il villaggio coi soldi ma anche portando i semi, in una regione agricola dove c’è una costante mancanza di semenza per la carestia, basta a ottenere l’appoggio popolare.

Non credi che rispetto alla politica la religione faccia però leva su qualcosa di più profondo e duraturo?
Non ne sono così convinto, anche la politica ha degli effetti nel tempo, i governi cambiano le leggi, mutano la costituzione, come è accaduto in America nominano dei giudici che rimarranno lì a vita. E questo senza dimenticare gli effetti delle politiche di estrema destra sulle persone che si sentono legittimate nell’aggressione e nella violenza. Cosa succede nel villaggio del mio film? Una volta che se ne andranno gli integralisti nulla sarà più come prima, l’intera comunità non è più la stessa e anche il nostro eroe, l’imam, rimarrà con la sua malattia. È un po come chi non va a votare e se ne sta a chiacchierare o a discutere al tavolino del bar. E poi, magari, si trova che è passata la Brexit.

I più giovani, a cominciare dai due protagonisti, appaiono come coloro che maggiormente subiscono questa violenza.
Hanno dei sogni, vogliono studiare, andare in una città più grande e tutto questo si scontra con i loro padri perché alla fine ognuna delle due visioni dell’Islam pensa di corrispondere realmente all’umanità. Ma è davvero così? Molti religiosi sono rapaci, cercano di riempirsi le tasche, e per affermare il proprio potere utilizzano la religione approfittando del vuoto istituzionale e dei bisogni quotidiani di chi ha maggiori difficoltà.