Furono le mosche a farcelo capire… Inizia così il più celebre reportage di Robert Fisk, quello sul massacro dei palestinesi a Sabra e Chatila del 1982, un ritaglio di giornale che Stefano Chiarini – ieri ho ricevuto, spero meritatamente, il premio che porta il suo nome – con determinata gentilezza, mi mise sotto il naso qualche decennio fa per farmi capire come si fa questo mestiere.

Anche Robert ammirava Stefano per il suo coraggio e l’intelligenza e un giorno, credo, finì pure per intervistarlo. Stefano allora aveva già una solida esperienza maturata nell’Irlanda del Nord insanguinata degli anni ’70, sui campi mediorientali e nelle lontane guerriglie delle Filippine. Mi viene naturale accostare oggi i due grandi inviati di guerra, due da cui ho imparato a farmi domande, a ragionare sui fatti oltre le evidenze della cronaca, oltre le versioni della stampa mainstream.

L’indimenticabile Steve Shrimps, pseudonimo con cui talvolta si firmava – eredità della casa editrice Gamberetti da lui fondata – è stato un compagno di scorribande mediorientali e balcaniche. Un maestro nel senso migliore. Mi raccontava – e ci raccontava – gli eventi con lucidità e senza retorica, come un bravo meccanico smonta un motore e ti mostra come lavorano i meccanismi della cronaca e della storia: ecco, diceva, funziona così, lasciandoti a riflettere con un sorriso gentile e sempre ironico. Ecco quel sorriso, quel lampo di umanità e intelligenza, che rendeva meno duro e cupo stare tra bombe e massacri, non lo potremo mai dimenticare.

Quel sorriso ironico non perde smalto con il passare del tempo, anzi diventa ancora più illuminante. Trovo fenomenale il ricordo che ne ha fatto anni fa sul manifesto Stefania Limiti. «Stefano Chiarini – scriveva allora Stefania – era forse la reincarnazione di un vecchio saggio ebreo. Uno di quegli incredibili personaggi della cultura ebraica, sagaci, ironici, capaci di deformare il reale con il loro umorismo, eppure consapevoli della realtà e delle sue angustie. Stefano rideva molto di quella battuta, se ne compiaceva. Forse la fece proprio lui».

Maurizio Matteuzzi del manifesto – l’«ayatollah» Matteuzzi, come lo chiamavamo noi ai tempi dell’Iran di Khomeini – diceva, scherzando ma non troppo, che Stefano era attratto in maniera irresistibile dalle cause perse Fu quindi quasi naturale la sua attrazione fatale per la Palestina e per il Medio Oriente. Stefano non mollava mai. Fu l’unico giornalista italiano che nel ‘91 per più di un mese restò sotto le bombe americane su Baghdad, lui solo con Peter Arnett della Cnn. Credo, ma potrei pure sbagliare, che allora il manifesto arrivò al suo picco di vendite.

Stefano continuava a cercare la verità anche quando molti di noi rinunciavano a farlo: dobbiamo restare qui, non mollare, mi diceva quando eravamo a Baghdad nel 2003. Eravamo insieme nella capitale irachena anche nell’inverno del 2005 per coprire con Giuliana Sgrena le elezioni parlamentari. Quando rapirono Giuliana lui era allo scalo di Amman: tornò immediatamente indietro. Un diplomatico dell’ambasciata italiana lo aspettava all’aeroporto ma Stefano eluse i controlli per fare liberamente il suo lavoro di indagine su quanto era accaduto a Giuliana. Fu il momento più angoscioso nella vita di questo giornale. Se n’è andato lasciandoci molto, a partire dell’associazione Don’t forget Sabra e Chatila (Per non dimenticare Sabra e Chatila), dedicata al ricordo del massacro, commemorato ogni anno a Beirut. Ma ricordo anche la nave «Stefano Chiarini», a lui dedicata, della seconda flottiglia organizzata per rompere il blocco di Gaza.

Ed ecco che mi sembra di vederlo sulla tolda di quella nave, a scrutare l’orizzonte, come il capitano di una ciurma di sognatori. Quello che forse noi oggi non siamo più.