Se i toni del dibattito sul finanziamento ai partiti nel Pd restano sorvegliati, per ora, è perché a Palazzo Chigi c’è un democratico, anzi c’è Enrico Letta, già numero due del Pd bersaniano. Ma a tanti l’idea di consegnare ai finanziamenti privati la possibilità di fare politica non va giù. Lo ha detto per primo l’ex tesoriere Ds Ugo Sposetti al Corriere della sera, difendendo i lavoratori Pd e attaccando i colleghi al governo e alle camere che «non vogliono o non riescono a condurre la battaglia contro la demagogia e il populismo» Pronti alla battaglia in difesa del finanziamento – sebbene riformato – sono molti giovani turchi. E che nel Pd si stia costituendo un fronte in difesa della «democrazia dei partiti» lo dimostrava anche l’Unità sulla quale ieri il professore Michele Prospero ha scritto: «Negare ai partiti i fondi per la cultura, per l’informazione e per le funzioni organizzative significa impoverire la democrazia e darla in appalto alle potenze del mercato».

Preso atto dei malumori dentro tutta la maggioranza, ieri Enrico Letta ha aperto alla possibilità di un rimaneggiamento del disegno di legge del governo: «A chi non piace la proposta, ne faccia altre, ma il tema è da affrontare». Ma nel Pd, oltre al fronte parlamentare, c’è il delicato fronte interno. Nel palazzo del Nazareno, che si prepara a un significativo ridimensionamento dell’apparato, gli oltre 180 lavoratori domani limeranno una lettera al segretario Epifani che martedì pomeriggio verrà letta alla riunione della direzione. Contiene il «piano B» annunciato – ma solo annunciato – dalla rappresentante sindacale Giuseppina Giuffré a Youdem, la tv online di casa democratica. Le premesse sono soft, di chi esclude «che il Pd voglia considerare dei lavoratori, e tanto più i suoi, come una variabile neutra tra le voci di un bilancio». La proposta invece è hard: un tavolo di negoziazione per attivare la «solidarietà tra dipendenti, dirigenti e parlamentari» e scrivere «un progetto chiaro ed economicamente sostenibile per arrivare in un tempo certo alla rimodulazione delle modalità di finanziamento, alla ridefinizione degli obiettivi di bilancio e infine alla ristrutturazione dell’organico del personale». Tradotto dal sindacalese: se i soldi saranno tagliati, toccherà ai parlamentari raddoppiare il loro contributo al partito, dagli attuale 1500 euro a 3mila, per assicurare almeno fino a fine legislatura gli stipendi – e il lavoro – dell’apparato. Anche perché a breve partirà la macchina organizzativa del congresso, e non è augurabile avviarla con i funzionari a ranghi o servizi ridotti.

Domani i 180 discuteranno le virgole della lettera. Tra loro c’è chi contesta la logica del testo governativo, sostenendo invece la proposta di Walter Tocci. Che prevede tre strumenti: il contributo pari all’uno per mille del gettito Irpef da ripartire secondo le indicazioni dei contribuenti; il credito d’imposta per le libere donazioni private; il rimborso parziale delle spese elettorali effettivamente sostenute. Altri invece consigliano di non entrare in rotta di collisione con Letta. Perché, spiega una funzionaria, «possiamo fare tutti i ragionamenti che vogliamo sulla democrazia dei partiti e sul loro ruolo nella Costituzione, ma con la crisi che c’è non possiamo chiedere lo stipendio ai cittadini che non arrivano a fine mese». Ai cittadini no. «Ma ai deputati e ai senatori sì», conclude. Divisi sulla legge, dunque, ma uniti sul «piano B»: che i parlamentari, alcuni dei quali responsabili di come sono stati utilizzati fin qui i fondi, ora ci rimettano, se non la faccia, almeno i soldi.