Nel dialogo intitolato «Repubblica», Platone racconta un mito piuttosto singolare, del quale è protagonista un pastore, di nome Gige, il quale lavorava al servizio di colui che allora regnava sulla Lidia. Un giorno, durante una grande tempesta, un forte terremoto spaccò la terra, lasciando una voragine nei pressi del luogo dove il pastore pascolava il gregge. Avendola vista, Gige rimase stupito, poi scese e vide, fra le altre cose stupefacenti, un cavallo di bronzo, cavo, nel quale si aprivano alcune porticine. Affacciatosi ad una di esse, vide un cadavere, che sembrava più grande di un uomo normale, con nient’altro indosso se non un anello d’oro in una mano. Lo strappò via e poi risalì all’aperto.
Qualche ora più tardi, Gige partecipò all’abituale riunione dei pastori indossando l’anello. Sedutosi in mezzo agli altri, gli accadde di girare casualmente il castone dell’anello verso l’interno della mano, diventando con ciò invisibile agli altri, al punto che essi discorrevano su di lui come di un assente. Pieno di stupore, egli di nuovo girò il castone dell’anello verso l’esterno, in questo modo diventando visibile.
Avendo compreso quale straordinario potere fosse insito nell’anello, Gige si adoperò per far parte dei messaggeri inviati presso il re. Giunto davanti al sovrano, giovandosi dell’invisibilità garantita dall’anello, dopo aver sedotto la regina, si servì dell’aiuto di lei per assalire il re, ucciderlo, e quindi impadronirsi del trono. La «morale» di questo mito è illustrata subito dopo da Platone, per bocca di uno dei protagonisti del dialogo: questa antica vicenda dimostrerebbe in maniera irrefutabile che, se vi fossero due anelli come quello di Gige, e fossero indossati l’uno da un uomo giusto giusto, l’altro da un ingiusto, nessuno dei due resisterebbe alla tentazione di approfittare dell’invisibilità per commettere ogni sorta di ingiustizia, avendo la possibilità di prendere per sé tutto ciò che vuole, restando impunito. Se ne può concludere che nessuno è giusto per sua libera scelta, ma solo perché vi è costretto dal timore di essere sanzionato dalla legge.
Da notare che il caso di un umile personaggio assurto al trono per aver sedotto la regina e ucciso il re, è riferito anche dallo storico Erodoto, al di fuori di ogni rivestimento mitologico o fantastico. Secondo la versione erodotea, Candaule, sovrano della Lidia, intende convincere Gige, la più fidata fra le sue guardie, che la regina è donna di straordinaria bellezza. Per questa ragione, lo induce a nascondersi nella camera da letto regale, in modo da poter vedere la regina mentre si toglie gli abiti, restando invisibile. Scoperto dalla donna mentre sta allontandosi dalla camera, Gige è posto di fronte ad un’alternativa: o uccidere Candaule, e con ciò prendersi anche la regina e il trono, oppure essere messo a morte, per aver visto ciò che non avrebbe dovuto vedere. La scelta è quasi inevitabile: nascosto dietro la porta della camera da letto, e dunque sottratto alla vista, Gige attende che il re si addormenti per poi pugnalarlo nel sonno, e dunque conquistare la mano della regina e il trono della Lidia.
Come molti altri episodi analoghi, ricorrenti nei testi del mondo greco classico, anche le due versioni della storia di Gige alludono ad un assunto di fondo: la possibilità di vedere restando invisibili, la rottura della simmetria fra il vedere e l’essere visto, conferisce a colui che gode del vantaggio del vedere un potere tendenzialmente incondizionato. Vi è, insomma, una forza dello sguardo che prevale di gran lunga sul puro e semplice esercizio della violenza. Vedere è potere, soprattutto quando il vedere in senso attivo è scisso dal vedere in senso passivo.
La consapevolezza del potere connesso con l’esercizio dello sguardo può così spiegare anche uno degli aspetti più caratterizzanti della tradizione culturale dell’Occidente, vale a dire il primato riconosciuto alla vista, rispetto agli altri sensi. Ne troviamo una significativa conferma già nell’uso linguistico, rimasto sostanzialmente immutato fino ai nostri giorni. Il privilegiamento della vista risulta immediatamente dalla sostanziale identità sussistente fra i termini che designano forme e contenuti del vedere e del conoscere. In greco, il termine idéa – e dunque ciò a cui si riferisce l’atto dell’idéin, del vedere – indica anche insieme e indistinguibilmente il perno dell’attività conoscitiva. Lo stesso dicasi per altre espressioni, dalle quali emerge la sinonimicità fra vedere e conoscere, a cominciare dal termine – theorìa, e dunque visione – impiegato per designare il modo in cui le idee si organizzano in forma organica.
Direttamente dalla radice greca, o più spesso attraverso la mediazione della lingua latina, quest’uso sopravvive ed è largamente diffuso nelle lingue moderne, dove ciò che è originariamente pertinente alla visione diventa ben presto anche requisito della conoscenza. Così è, ad esempio, per termini italiani come la «chiarezza» o la «perspicuità», o (ancor più nettamente) l’«e-videnza», o per coppie oppositive come «brillante-oscuro», o per metafore come «panoramica» o «illuminazione», o anche per termini come «prospettiva» o «punto di vista», usati indifferentemente in riferimento alla vista o alla conoscenza.
Diversa è la situazione nel filone che trae origine dall’ebraismo, nel quale ad essere privilegiato è l’ascolto, sicchè l’organo sensoriale di gran lunga più importante è l’orecchio, assai più dell’occhio. La conferma di questo rovesciamento, rispetto all’impostazione prevalente nella cultura di derivazione greca, può essere rintracciata nella svalutazione della vista, accennata nella profezia di Ezechiele, e poi ripresa con forza nella condanna cristiana della concupiscentia oculorum, dalla prima epistola di Giovanni fino alle Confessioni di Agostino.