Non ha fatto nemmeno in tempo a decollare la nuova analisi costi-benefici sulla Torino – Lione, che il crollo del ponte Morandi riapre la discussione sugli aspetti della politica delle infrastrutture: tempi e nessi tra progettazione e realizzazione, tra manutenzione e gestione, tra pubblico e privato, tra opere e modello di sviluppo. Si tratta di due vicende diverse e, per molti aspetti, di segno opposto. La Torino- Lione è un’infrastruttura pensata 30 anni fa ed appena avviata che già oggi appare, nei costi ambientali, sovradimensionata.

Negli anni Novanta l’andamento dell’economia, i nuovi flussi di traffico merci e le speranze di intercettare a Gioia Tauro i traffici Asia-Europa, facevano pensare ad uno sviluppo esponenziale dei volumi trasportabili e, quindi, alla necessità di nuove infrastrutture. Invece, stava per finire un’epoca tanto che oggi si temono la stagnazione e la deglobalizzazione. Nel frattempo i costi lievitano e traffici e ricavi previsti si riducono rendendo più ragionevole un radicale ripensamento dell’opera.

Nel caso Genova si tratta di un’opera stradale giudicata, al contrario, sottodimensionata. Completata 50 anni fa e pensata per i traffici prevedibili allora, è stata sottoposta a pressioni di intensità e peso enormemente più alte. Da qui, dai probabili limiti insiti nella progettazione, dalla sottovalutazione delle esigenze di manutenzione e limitazione del traffico che stridevano col carattere privatistico della gestione, il punto di rottura tra caratteristiche costruttive, dimensionamento strutturale e volumi di traffico che l’hanno attraversata. Da questo groviglio di problematiche il disastro che l’ha colpita.

Le due vicende, per quanto così diverse, ruotano attorno allo stesso tema: l’interazione tra infrastrutture e modello di sviluppo al quale esse sono organiche. Le infrastrutture hanno una lunga fase di incubazione, dalla ideazione alla realizzazione, dovrebbero essere progettate per avere una vita lunghissima, nascono per sostenere lo sviluppo presente, ma influiscono anche sulla sua evoluzione. Un ponte nasce per fluidificare i flussi di traffico, ma finisce anche per attrarne di nuovi e più pesanti. Esse contribuiscono, così, a cambiare gli stessi parametri sui quali si basa la loro progettazione. Così come risentono dei mutamenti che avvengono nel territorio in cui insistono. Basta guardare a come è cambiata la struttura economica dell’area genovese, da nodo centrale del “triangolo industriale” Genova-Torino-Milano ad area vasta di servizi che ruotano intorno alle attività portuali in uno scenario globale – la rivoluzione dei container – che ne ha fatto sempre di più una sede di puro transito di mezzi pesanti accentuato dallo sviluppo del terminal Voltri.

A questa mutazione delle attività produttive, purtroppo, non si è affiancato un parallelo e tempestivo ridisegno delle infrastrutture modali con un riequilibrio tra strada e ferrovia (il potenziamento del nodo ferroviario genovese non è ancora compiuto e segue, invece di precedere temporalmente, l’aumento dei volumi di merci movimentate).

Ecco allora che la relazione tra infrastrutture, modello di sviluppo e contesto economico appare in tutta la sua rilevanza. Per tutte le infrastrutture si possono trovare ragioni per realizzarle, ma nessuna infrastruttura è neutra. Si tratta sempre di decidere a quale idea di territorio, di economia, di qualità della vita e dello sviluppo essa corrisponda, a cosa serve e cosa genera. Si tratta di capire chi se ne avvantaggia, chi ne subisce danni e quali interessi la muovono. Non esiste la modernità a prescindere, come cieca soggezione a tutto ciò che è nuovo. Né la stella polare delle scelte infrastrutturali può essere l’industria dell’auto o il capitalismo rampante a profitto garantito dai pedaggi delle autostrade che, invece di investire correndo il rischio di impresa, si insedia nelle nicchie della rendita di posizione, nei settori prima pubblici, sviluppando un perfido intreccio tra capitale, impresa e politica.

Eppure tutto questo è accaduto e questi temi saranno al centro della discussione che si apre.

Si sentirà in essa anche la voce della sinistra? Nell’immaginario collettivo, e non sempre a torto, la sinistra è corresponsabile e complice di ciò che di negativo emerge oggi. Ed il governo parte col vantaggio, non sempre fondato, di apparire nuovo. Quella che si apre potrà essere comunque una fase interessante. Per fronteggiare l’emergenza presente e le situazioni che verranno a galla dai controlli che si faranno ad oltre mezzo secolo dal boom del cemento, si imporranno consistenti manutenzioni del territorio. Ed i temi degli investimenti pubblici, dei vincoli di bilancio e dei rapporti con l’Europa diventeranno centrali, così come quelli delle priorità tra grandi opere e manutenzione diffusa del territorio. E su questi temi non è detto che l’alleanza di governo possa procedere compatta e senza incrinature.

C’è, quindi, terreno per fare politica e per ricostruire una visione di sinistra dello sviluppo e del futuro. Sia a Genova che in tutta Italia abbiamo a che fare con un territorio tanto bello quanto fragile ed i disastri di diversa natura che periodicamente lo colpiscono sono figli o di una trascuratezza o di una forzatura violenta dell’uomo sulla natura.

Prenderci cura del nostro territorio con le sue grandi bellezze, accudirlo come un essere delicato, costruire un modello di sviluppo basato sulla sua salute, sul suo benessere intrinseco e su quello che può trasmettere a chi lo vive e lo visita, può essere un nuovo cammino da intraprendere per una sinistra oggi fuori gioco. E’ troppo? Si. Basta, comunque, che non vediamo più quella terribile foto che mostra il ponte “appoggiato” sui palazzi preesistenti. Anzi: ma come abbiamo potuto conviverci per tanti anni?