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Le immagini possono essere armi con le quali decostruire il discorso del potere, svelarne le contraddizioni e articolare la resistenza. L’ultimo libro di Christian Uva, studioso di storia del cinema e di storia politica italiana, ci riporta alle origini di questa riflessione, a quegli “anni Sessantotto” che, proprio grazie alle immagini dei film, dei videotape e della fotografia militante, sono entrati a far parte dell’immaginario nazionale (L’immagine politica. Forme del contropotere tra cinema, video e fotografia nell’Italia degli anni Settanta, Mimesis, pp. 284, euro 24). Punto di partenza della ricostruzione è il ruolo svolto da alcune riviste nell’elaborare il discorso del «contropotere». Per Goffredo Fofi e Paolo Bertetto, redattori di «Ombre rosse», il cinema deve essere piegato alle esigenze della lotta di classe.

Il modello di riferimento, da superare «a sinistra», sono di documentari di Gregoretti, che con il suo documentario Apollon ha portato sugli schermi il conflitto di fabbrica. Contro il cinema «di partito» dell’Unitefilm del Pci e la filmografia d’autore, il film-ciclostile si afferma dunque come uno strumento di controinformazione che, riprendendo la lezione di Debord e Godard, intende «mordere la realtà» attraverso la rappresentazione delle lotte nelle università e nelle officine. Un momento chiave è rappresentato dalla strage di piazza Fontana.

Nell’indagine delle reazioni provocate dalle prese di posizione della stampa e del potere politico, Uva racconta come la mobilitazione del Comitato cineasti contro la repressione abbia coinvolto attori e registi del calibro di Volontè, Petri, Bertolucci e Pasolini. Quest’ultimo supervisiona il progetto di Lotta continua 12 dicembre, con il quale l’organizzazione approda al campo della cinematografia militante con il fine di smontare le argomentazioni della stampa borghese sulla bomba e i suoi esecutori.

Di tutt’altro tipo sono invece prodotti come Pagherete caro pagherete tutto, una cronaca degli scontri dell’aprile 1975 a firma del Collettivo cinema militante di Milano, e Filmando in città – Roma 1977, ultima opera cinematografica legata al gruppo di (ex) Lotta continua. Siamo ormai alle ultime battute del film-ciclostile e anche in Italia la tecnologia video sta rivoluzionando l’informazione con l’allargamento della platea degli operatori «dal basso». Roberto Faenza va teorizzando la «guerriglia televisiva», il movimento femminista si è appropriato della macchina da presa e il movimento del ’77 combatte la sua battaglia d’immagini contro i sostenitori degli «opposti estremismi».

In tale contesto si colloca Anna di Alberto Grifi, probabilmente il risultato migliorie della video-arte di movimento. Presentata in forma ridotta al Festival di Berlino del 1975, questa produzione sperimentale consiste nella registrazione di circa undici ore della vita di una tossicodipendente incinta e senza fissa dimora. Quello di Anna – spiega Uva – è un «corpo indocile» che esprime un’istanza radicalmente antagonista alla biopolitica del potere. Il merito del regista sta nell’aver portato all’estremo il desiderio di realismo, fino allo svelamento dell’inconciliabilità tra il progetto politico dell’autore e la vita nuda del «sottoproletariato». Nel cuore del decennio la «guerriglia semiologica» assume però anche altre forme.

Le pagine più interessanti del libro sono dedicate alla discussione sviluppatasi attorno all’istantanea dell’«uomo che spara» (maggio 1977), in cui si vede un militante di Autonomia Operaia impugnare a due mani una pistola e puntarla ad altezza uomo. Di questa «cartolina degli anni di piombo» Umberto Eco scrive sull’«Espresso» che si tratta della fine dell’iconografia rivoluzionaria, ormai travolta dall’estetica della violenza. Su «Lotta continua» Pio Baldelli reagisce attaccando la manipolazione delle immagini operata dalla stampa borghese, accusata di aver isolato un fotogramma per costruire il proprio teorema. Di certo c’è che questa immagine, insieme alle polaroid brigatiste dei rapimenti Sossi e Macchiarini e quelle di Moro prigioniero delle Br (o le foto del suo corpo dopo la sua morte), hanno segnato in maniera indelebile l’immaginario collettivo siglando la sconfitta definitiva della lotta armata, ma anche la fine della stagione dei movimenti sociali.

Sono rimaste invece le strutture teoriche profonde che animavano il progetto iconografico del contropotere, oggi parte integrante della metodologia di chiunque intenda affrontare criticamente l’analisi della società contemporanea.