Democrazia è oggi parola che ha un suono un po’ spaesante, potremmo perfino dire «perturbante» con un riferimento a quella dialettica di familiare ed estraneo che ne definisce il concetto per Freud. Da una parte, come resistere all’impressione che la democrazia sia in qualche modo esausta, svuotata da un insieme di processi e di poteri che ne aggirano continuamente le procedure, le forme e lo stesso «spirito»? Se siamo tutti familiari con le analisi dei processi contemporanei di governo (o di governance) che ne sottolineano la natura ormai compiutamente «post-democratica», abbiamo anche chiara la sensazione che la nostra vita sia dominata da potenze – dai mercati finanziari globali al cambiamento climatico alle grandi piattaforme digitali – che si presentano come indifferenti alla presa e alla pretesa regolativa della democrazia. E gli effetti dell’azione di queste potenze, non ci si inganni, sono direttamente politici.

DALL’ALTRA PARTE, non è forse vero che alcuni dei movimenti sociali più innovativi del nostro tempo, nel momento stesso del loro insorgere, parlano quasi naturalmente il linguaggio della democrazia? Democracia real, ya!, per fare un solo esempio, è stato lo slogan del movimento che ha occupato le piazze spagnole nel 2011, riprendendo le indicazioni che venivano da Paesi come la Tunisia e l’Egitto e dando luogo a un ciclo globale di mobilitazioni.
Dobbiamo dunque fare i conti con quanto vi è oggi di «perturbante» nella parola democrazia. Per quel che mi riguarda, ho sempre seguito autori classici, come Spinoza e Marx, ma anche un sociologo novecentesco come Tom Marshall (l’autore di Cittadinanza e classe sociale), nel pensare che della democrazia sia necessario sviluppare un concetto doppio, in un certo senso diviso. Democrazia nomina infatti un sistema istituzionale, che si è venuto organizzando attorno alla rappresentanza politica e di cui abbiamo molteplici realizzazioni – dagli Stati Uniti d’America all’India, per menzionarne due particolarmente significative sia dal punto di vista storico sia dal punto di vista del nostro presente. Ma democrazia nomina anche un movimento, una spinta che certo si può definire alla democratizzazione ma che infinite volte – dalle lotte delle donne alla rivolta degli afro-americani contro la segregazione nel Sud degli Stati Uniti, dai movimenti dei Dalit in India alle rivendicazioni dei migranti senza documenti in Italia – si è rivolta e si rivolge contro sistemi che si definiscono democratici.
Dunque, un sistema istituzionale e un movimento: questo è per me la democrazia, e la sua storia politica non è pensabile al di fuori della tensione e del conflitto tra quelle due dimensioni. Tensione, conflitto, e certo anche dialettica: l’impressione, per dirla un po’ rapidamente, è tuttavia che da qualche tempo la dialettica si sia interrotta e che oggi ogni discorso sulla democrazia debba assumere come proprio punto di partenza questa interruzione.
Ma siamo qui chiamati, nell’edizione di quest’anno della «Biennale della democrazia», a riflettere su un tema tanto affascinante quanto impegnativo, quello definito dai due termini «visibile» e «invisibile». Termini evidentemente cruciali per una forma politica, quella democratica, che ha sempre assunto la trasparenza del potere come proprio riferimento essenziale. Lo «Stato profondo», gli apparati che operano nell’ombra sulla traccia antica degli arcana imperii sono sempre stati la bestia nera della democrazia. Questi apparati non hanno certo smesso di operare.

EPPURE OGGI parlare di «visibile» e «invisibile» costringe a confrontarsi con un insieme ulteriore di questioni, che portano scompiglio in quella grande divisione tra il «pubblico» e il «privato» che la democrazia in quanto sistema istituzionale ha sempre in qualche modo assunto come proprio presupposto (pur subendo la sfida radicale di grandi movimenti sociali, in primis di quello femminista, che ha colto proprio nel «privato» il momento costitutivo del patriarcato, «invisibile» alla democrazia). La «visibilità» oggi invade le nostre vite, lo stesso «io» è sollecitato a sovraesporsi, illuminato da una luce pubblica che non è certo quella dello Stato, ma piuttosto quella dei social media e di un insieme di piattaforme che plasmano il nostro quotidiano. Al riparo da quella luce, del resto, un insieme di poteri lavora alla continua scomposizione e ricomposizione dei dati che definiscono i nostri molteplici profili, sottraendo la nostra «identità» al nostro controllo. Il caso «Cambridge Analytica» ha mostrato a tutti noi quale sia il potenziale impatto direttamente politico delle tecnologie di data mining sotto il profilo della manipolazione della cosiddetta «opinione pubblica». Ma la questione ha certo per la democrazia, comunque la si voglia definire, un rilievo che va al di là di questo pur decisivo impatto.
«Visibile» e «invisibile» in riferimento alla democrazia, dunque. Sviluppando alcune indicazioni del filosofo francese Jacques Rancière, parlerei di «regimi di visibilità» che contraddistinguono la democrazia. Rancière parla di «partizione del sensibile» a proposito di un sistema che rende «contemporaneamente visibile l’esistenza di qualcosa di comune e le divisioni che, su tale comune, definiscono dei posti e delle rispettive parti». Si vede bene come questa definizione si attagli alla democrazia (e più in generale alla politica): il doppio riferimento al «comune» e alle «divisioni» trascrive la grande questione del rapporto tra inclusione ed esclusione nel registro del «visibile» e al tempo stesso turba la nitidezza del rapporto tra ciò che è interno e ciò che è esterno alla democrazia (nel senso che determinati soggetti possono benissimo sentirsi a disagio nelle «parti» che sono loro attribuite da uno specifico «regime di visibilità»).

È NOTA L’IMPORTANZA che Rancière attribuisce, soprattutto nel suo libro Il disaccordo (1995), alla «parte dei senza parte», a quegli «invisibili» la cui insorgenza e i cui movimenti scompigliano la «partizione del sensibile» e aprono lo spazio in cui diviene possibile la riqualificazione dell’uguaglianza democratica. Credo che sia un’indicazione importante per noi, che ci ricorda un significato essenziale del termine «invisibile» in riferimento alla democrazia. Non dovremo tuttavia dimenticare l’altro significato del termine, quello che in qualche modo lo collega a ciò che vi è di osceno nella democrazia. Achille Mbembe, in un libro appena uscito in italiano (Nanorazzismo. Il corpo notturno della democrazia), legge ad esempio in questo modo le forme pervasive con cui il razzismo penetra all’interno delle nostre società democratiche.
Parlare di «visibile» e «invisibile» a proposito della democrazia non può dunque che tenere insieme entrambi i significati dell’invisibilità. Significa parlare di donne e uomini migranti senza documenti che occupano una casa; ma significa anche parlare del corpo di Stefano Cucchi straziato dall’accanimento di servitori dello Stato democratico, «nei secoli fedeli», in una notte romana. Significa parlare dell’adolescente Rami Shehata, invisibile alla cittadinanza del Paese in cui è nato, che si chiede come mai solo a lui, ordinario eroe, e non anche ai suoi fratelli e ai suoi amici debba essere riconosciuta quella cittadinanza; ma significa anche parlare dell’indifferenza, se non del piacere sottile e inconfessabile di fronte a migliaia di morti in mare che si diffonde nel nostro democratico Paese.

PARLERÒ degli «invisibili» soprattutto nel primo senso, guardando ai movimenti dei soggetti costruiti come tali da uno specifico regime di «visibilità», ma cercherò di tenere ben presente anche il secondo senso, quello che ho chiamato l’«osceno della democrazia». Vorrei proporvi in primo luogo una digressione storica (sulle lotte dei Dalit in India e degli afro-americani negli Stati Uniti), per concentrarmi quindi sulla figura dello straniero, del migrante, che è oggi al centro di un peculiare gioco di invisibilità e visibilità. Mi interrogherò attraverso l’analisi di forme specifiche di mobilitazione e di lotta sulla possibilità (o meno) di riqualificare la democrazia attraverso quella forza di invenzione, quella capacità di innovazione che contraddistingue l’insorgere e l’azione dei movimenti sociali.