Ha un sapore deliziosamente ironico che la piccola ma impeccabile retrospettiva di Mike Kelley curata da Peter Pakesch, God’s Oasis, fra le diverse sedi di Hauser & Wirth abbia trovato ricetto (sino al 21 dicembre) nella galleria-madre, quella che ha sede nell’ex birrificio di Zurigo. Ancora meglio se si fosse aspettato l’opening della nona sede (!), di questa multinazionale dell’arte, ormai prossimo a St. Moritz. Perché fra i tanti miti che l’artista di Detroit (morto suicida, a 57 anni, all’inizio del 2012) ha provveduto ad atrocemente sconciare col suo tipico trattamento mitobiografico-psicanalitico-bassomaterialistico, c’è anche quello di Heidi: la trovatella del polpettone ottocentesco di Johanna Spyri che pencola tra una respingente città moderna e l’idilliaco paesaggio oleografico, appunto, delle Alpi svizzere. Contrappasso sopraffino per una generazione, la mia, negli anni settanta funestata dal glicemico anime giapponese disegnato da Miyazaki (col tormentone della sigla vagamente yodel di Elisabetta Viviani: «Heidi, Heidi, il tuo nido è sui monti / Heidi, Heidi, eri triste laggiù in città / accipicchia, qui c’è un mondo fantastico / Heidi, Heidi, candido come te / Heidi, Heidi, tenera piccola con un cuore così / Heidi, Heidi, ti sorridono i monti / Heidi, Heidi, le caprette ti fanno ciao»).
A ripassare il Novecento non si può che considerare ingeneroso l’apologo di Orson Welles, l’Harry Lime del Terzo uomo, che contrapponeva proprio la Svizzera all’Italia brutta sporca e cattiva: «per trent’anni sotto i Borgia ci furono guerre, terrore, omicidi, carneficine, ma vennero fuori Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera non ci fu che amore fraterno, ma in cinquecento anni di quieto vivere e di pace che cosa ne è venuto fuori? l’orologio a cucù». Eppure non si può negare che in Svizzera basti fermarsi anche poche settimane per avvertire quella «Enge», la «“strettezza” non solo fisica e geografica ma anche e soprattutto mentale» che resta il cruccio di questo paese così confortevole (come si vede nei saggi di Max Frisch curati dall’appena citato Mattia Mantovani, per Meltemi, col titolo Attenzione: la Svizzera).
In realtà Kelley, e il suo complice Paul McCarthy, nel video del 1992 si rifacevano al film hollywoodiano del ’37 dove Heidi era Shirley Temple: perfetta incarnazione dell’ottimismo coatto del New Deal (lo stesso Roosevelt dichiarò: «finché il nostro Paese avrà Shirley Temple, noi staremo bene… è meraviglioso che per pochi centesimi ogni americano possa entrare in un cinema e vedere il sorriso di una bimba che gli ridarà la forza di andare avanti»; chissà se il suo debole per Heidi – da noi, atrocemente, Zoccoletti olandesi – non fosse dovuto allo scioglimento di quella trama: coll’amichetta di città che riacquista per miracolo – cioè per i sorrisi a tutta dentiera di Shirley Temple, appunto – l’uso delle gambe…). È un esempio perfetto della meta-ironia così tipica di Kelley, e che hanno spiegato molto bene Marco Enrico Giacomelli (in una sintetica ma appuntita monografia, sinora l’unica da noi: Di tutto un pop, Johan & Levi 2014) e la giovane Arianna Agudo (in una tesi di laurea discussa l’anno scorso). Della Pop Art la generazione successiva di artisti americani enuclea il rimosso negativo: l’osceno, lo scatologico, il traumatico. Lo esibiscono scandalosamente, facendone deflagrare l’ottimismo algido e bloccato, da rictus, e così rifacendosi ad artisti laterali che già avevano mostrato il lato oscuro e disturbante del Pop, come Paul Thek, al quale Kelley dedica un saggio importante.
Ne esce un mélange straordinariamente ambiguo di tenerezza e perversione, cerebralismo e brutalismo, volgarità compiaciuta ed estrema sofisticazione. Il deskilling si fa con Kelley virtuosismo della goffaggine. Almeno dagli anni novanta sino alla fine improvvisa lo ossessiona la mitologia persecutoria della propria formazione: Educational Complex è un’opera-mondo (c’è chi l’ha paragonata al Grande vetro di Duchamp) labirintica e stratificata, interminabile come l’analisi freudiana cui spesso Kelley si riferisce, che intendeva ricostruire l’«indottrinamento istituzionale e abuso mentale» cui era stato sottoposto, dai tempi del California Institute of the Arts. La mostra di Zurigo consente un tuffo proprio in quegli anni settanta istericamente allegri e affettuosamente incubici: ci sono i primi pastelli del Kelley ventenne e una serie bellissima di Allegorical Drawings (piccoli pennarelli neri, serie denarrative di epiche comics dove dolcissime bestiole Disney incontrano le bambole perverse di Bellmer, occhioni flip-flap e spropositati genitali in evidenza), poi le rivisitazioni a distanza della stessa galassia autobiografica: giganteschi murales all’acrilico, celebrazioni ironiche (ma anche no) della scena pop del Michigan, dove i miti Motown coesistono coll’esoterico guru del free jazz, Sun Ra (da Kelley adorato magari soprattutto per certi suoi pretesi commerci cogli extraterrestri). Marchio importante, su questa stagione, la passione per la musica: God’s Oasis era il nomignolo dell’appartamento di Kelley, a Detroit, la «chiesa drive-in» dove provava il suo gruppo punk, i «Destroy All Monsters».
Alla fine, l’ennesima propaggine dell’Educational Complex. Già vista alla grande personale di Kelley all’Hangar Bicocca nel 2013, s’intitola Rose Hobart (la dea hollywoodiana culto di Joseph Cornell) e consiste in una serie di cunicoli di legno immersi nell’oscurità, al cui interno lo spettatore dovrebbe strisciare per giungere non a riveder le stelle, ma a sbirciare una scenetta scollacciata di Porky’s: dissacrazione estrema degli itinerari esoterici delle Grandi Opere moderniste, ma anche del proprio stesso erotismo perverso e sublime, di marca batailleana. Qui il percorso iniziatico non conduce ad altro, invece, che alle grazie dozzinali di una doccia vietata ai minori di 14 anni. È il modo più brutale con cui Mike Kelley potesse congedarsi dalla propria travagliatissima Bildung – nonché quello con cui, a nostra volta, alle caprette facciamo ciao.