L’opera poetica riconosciuta da Kavafis assomma in tutto a centocinquantaquattro poesie. Nato ad Alessandria d’Egitto, a cavallo tra fine Ottocento e inizi Novecento, Konstantinos Kavafis è il poeta greco senza dubbio più tradotto in Italia e, probabilmente, in Europa e nel mondo; lo stesso che ha visto impegnati sulla sua poesia alcuni tra i nomi più importanti di critici e traduttori; di lui hanno parlato quasi tutti i nostri maggiori poeti.
All’apparente esiguità quantitativa della sua opera corrisponde un’indiscutibile grandezza poetica e la constatazione della vastità della sua fama oggi. Come già molti studiosi hanno osservato – in primis il poeta e critico greco Nassos Vaghenàs – la risonanza della sua opera acquista quasi le dimensioni di un fenomeno: Kavafis è letto non come un poeta dimenticato e riscoperto, ma con l’immediatezza riservata a un contemporaneo.
La sua poesia ci parla del passato, ma guarda lontano: «Kavafis è un poeta del futuro», diceva di se stesso lo scrittore, consapevole che i suoi versi un giorno si sarebbero imposti.
Strana consapevolezza che è poi da lui stesso contrastata, se si pensa che durante la sua vita ha fatto di tutto per restare in ombra. La sua opera è uscita in volume soltanto nel 1935, due anni dopo la morte. Diffondeva, infatti, le sue poesie su foglietti volanti: li stampava in proprio e li riuniva in fascicoli che inviava a un ristretto pubblico di lettori oculatamente scelto.
Nel 1870, dopo la morte del padre e il tracollo economico della sua impresa, Kavafis seguirà la madre e i fratelli a Londra dove rimarrà sette anni e dove compirà i suoi studi. La madre riuscirà anche a ottenere per sé e i figli il passaporto inglese, ma qualche anno dopo Kavafis, ormai ad Alessandria, vi rinuncerà del tutto per prendere la cittadinanza greca.
Una domanda si pone: perché rinunciò alla cittadinanza inglese? Fu una scelta pagata a caro prezzo, anche nel quotidiano: è per questo motivo che resterà impiegato precario tutta la vita al Ministero d’irrigazione i cui superiori erano inglesi. Perché Kavafis, perfettamente bilingue, decise di scrivere in greco piuttosto che in inglese, lingua che non solo conosceva benissimo ma con cui continuava a comunicare con i fratelli rimasti in Inghilterra, la medesima con cui spesso appuntava i suoi pensieri; una lingua che gli avrebbe assicurato una vastità di pubblico che il greco sembrava ben lontano dal potergli offrire?
In realtà, come sottolinea anche Margherita Dalmati, sua traduttrice e acuta lettrice, Kavafis è greco perché sente e scrive in maniera greca… L’occhio di un greco guarda in modo sintetico: concepisce le linee essenziali. E questo è il segreto della sua arte. La poesia di Kavafis è spoglia, essenziale, quasi prosastica, non una parola di più, non una frase mancante. In questo senso, la sua lingua non poteva che essere il greco.
Fu un poeta greco per eccellenza anche grazie alle sue scelte tematiche: i temi della sua poesia attraversano, infatti, la cultura e l’arte in maniera diacronica, dal periodo classico al periodo ellenistico e poi bizantino fino al mondo contemporaneo.
Ma Kavafis è anche il poeta della diaspora greca, nato e vissuto ad Alessandria d’Egitto, geograficamente decentrata rispetto alla terra madre. Una patria, la Grecia, che Kavafis in tutta la vita visiterà non più di due o tre volte. È proprio la città di Alessandria, ai margini della cultura occidentale, eppure al tempo stesso luogo cosmopolita che lo pone in diretto contatto con la letteratura europea, in particolare con quella francese e inglese, aprendogli le porte verso l’Europa e non solo.
In quegli anni Alessandria è, infatti, teatro d’incontro di importanti personalità letterarie: Durrell, Forster che tanto si adopererà per la diffusione dell’opera di Kavafis nel mondo inglese, ma pure, per quel che ci riguarda più da vicino, Enrico Pea, Antonio Catraro, Filippo Tommaso Marinetti e, soprattutto, Giuseppe Ungaretti.
Ad Alessandria d’Egitto, nel 1888, è nato anche Ungaretti. Ha conosciuto Kavafis che incontrava insieme a un gruppo di giovani poeti nella latteria sul Boulevard di Ramleh. Ungaretti sarà per l’Italia il portavoce più importante e decisivo tanto che, grazie a lui, la fama di Kavafis ha paradossalmente quasi preceduto la pubblicazione della sua opera in italiano; Ungaretti ha avuto per l’Italia il ruolo che Forster ebbe per il mondo inglese.
Nel ricordo di Alessandria e di Kavafis, Ungaretti scrive con accenti sospesi tra realtà e fiaba: «A volte, nella conversazione, lasciava cadere un suo motto pungente e la nostra Alessandria assonnata, allora in un lampo risplendeva lungo i suoi millenni come non vidi mai più nulla risplendere. Alessandria, mia città natale…».
E la poesia di Kavafis è in effetti una lunga storia di «apparizioni», epifanie da un passato o biografico o storico, che sono poi sempre la poliedrica metafora fantastica di uno stesso paesaggio interiore. Motivi storici ed esistenziali, passato e presente si intrecciano di continuo nella sua poesia.
Sono queste sovrapposizioni che fanno scrivere a un altro grande poeta greco, Iorgos Seferis, a proposito dei giovani immortalati nella poesia di Kavafis: «Tanti morti e tanto presenti che non riusciamo a distinguerli dall’uomo che abbiamo visto passando, ristare all’ingresso del caffè, sedere al tavolo d’un locale, o lavorare nell’officina di un fabbro».
Il mondo che la sua poesia indaga è un mondo di personaggi ai margini della società, vittime inerti di fronte all’incertezza e alla fragilità del loro destino. E tra tutte le epoche quelle a lui più congeniali sono quelle di decadenza, che si svolgono ai confini delle età di splendore, alle porte di città la cui fama di una gloria passata si è ormai disgregata. Sono le sconfitte, le cadute, le fragilità umane ad attirare il suo interesse, là dove esistono mescolanze di lingua e culture, di civiltà in disfacimento.
E anche questo è un motivo che mette la sua poesia in consonanza con il nostro tempo e ce lo rende vicino e attuale, a sua insaputa e, appunto, suo malgrado.