Il Festival dell’economia di Trento quest’anno avrà come titolo «Il ritorno dello Stato», a conferma della centralità che sta assumendo l’intervento pubblico. Le caratteristiche e l’intensità di questo nuovo protagonismo non sono ancora definiti, ma il cambio di passo importante che emerge negli Usa di Biden, combinato ai successi della Cina, condizioneranno le scelte a livello globale.

Uno scenario che in Europa preoccupa più che altrove. La domanda pressante che aleggia attorno al fenomeno del ritorno dello Stato è: «quando e come farlo ritirare?». È evidente come l’economia a trazione finanziaria sia stata salvata da un nuovo e massiccio interventismo. Il timore che riemerga uno Stato ipertrofico che si riappropri di segmenti importanti dell’economia fa riproporre meccanicamente lo spauracchio dell’inefficienza del pubblico, il suo portato di corruzione e sperperi.

Tesi solo in parte fondate, ma che nel loro demonizzare la sfera pubblica rimuovono strumentalmente le contraddizioni e i limiti del neoliberismo. Il mercato libero, anche se in realtà sempre assistito, avrebbe dovuto autoregolarsi per dare vita a una crescita di lungo termine, ma gli insuccessi di questa prospettiva sono sotto gli occhi di chi vuole vedere. Esiste poi chi si preoccupa, in maniera più fondata, dell’invadenza dello Stato nella sfera individuale, del suo ruolo pervasivo e di controllo, ma appare preoccupazione ancillare rispetto alle altre.

Insomma, da un lato si rimuovono completamente gli ultimi quarant’anni a trazione liberista, con al centro il mercato e il suo portato di privatizzazioni e smantellamento del welfare, dall’altro che le nuove politiche economiche incentrate su abbondanza di moneta ed elevati deficit pubblici, che come dice Mariana Mazzucato nel suo ultimo libro un tempo avrebbero causato «un’apoplessia ideologica», sono espressione dei fallimenti del mercato. In questo contesto, ciò che prevale in Italia è l’ipotesi seguente: finanziamenti pubblici per aiutare la sfera privata in assenza di una pubblica che svolga un ruolo da protagonista.

Il Pnrr appare come un tassello di tale orientamento. Non è un problema soltanto di risorse e di settori in cui sarebbero impiegate, ma di assenza di una visione realmente innovativa. L’unico obiettivo dichiarato è quello di far tornare il paese competitivo (ma come?), mentre l’assenza di un vero e proprio programma pubblico riduce a pura retorica l’idea di uno sviluppo verde, equo e sostenibile. Il Pnrr, propongono gli estensori, dovrebbe essere «parte di una più ampia e ambiziosa strategia per l’ammodernamento del Paese», ma la ricetta che ripropone sembra guardare al passato.

Negli ultimi decenni la logica iper-competitiva ha sfondato barriere nel lavoro, nei servizi, nei beni essenziali, ma i suoi meccanismi di funzionamento non si sono rivelati all’altezza delle sfide contemporanee e neppure delle attese dei sostenitori del liberismo. Dalla fine degli anni Settanta sono state socializzate le perdite e privatizzati i profitti, per non dire della finanziarizzazione dell’economia e del prevalere di vedute a breve termine tipiche di un economia fondata sul privato e la sua inevitabile smania di profitti.

Il Pnrr appare lontano da scelte più coraggiose che si stanno facendo ad altre latitudini. Il ritorno dello Stato e, soprattutto, di una più generale sfera pubblica potrebbe significare che con le risorse di tutti si ipotizzi una nuova economia in grado di mettere al centro interessi collettivi e diffusi, progetti di lungo periodo, per scommettere su innovazione e ricerca, evitando al contempo sperperi e inerzie.

Creare istituti e attori nuovi, inedite regolazioni per un’economia che non rimuova la dimensione dell’efficienza, ma che sappia ridefinirne il significato anche in chiave sociale e ambientale, alla ricerca di una nuova visione che faccia i conti con il fallimento dell’economia dominante degli ultimi decenni.