La soluzione sarebbe l’Europa a due velocità. Da un lato un nucleo forte di Paesi “virtuosi”, dall’altra il purgatorio dei Paesi reprobi. Non l’inferno, ma il purgatorio, per l’appunto. C’è una logica: i Paesi del primo cerchio accettano le regole di bilancio vigenti e l’impostazione neo-liberista del processo di integrazione per mantenere il primato. Quelli del secondo lavorano su se stessi per essere riammessi, il prima possibile, nel club esclusivo, quello dei “migliori”. Di Cornice in Cornice, insomma, potranno guadagnare il Paradiso. L’ha detto chiaramente Angela Merkel: «Le cooperazioni diversificate non saranno chiuse ma dovranno restare aperte a tutti i Paesi che vorranno aderirvi».

Essere nel secondo cerchio non significherebbe poter fare politiche fiscali più espansive, sottrarsi, compatibilmente con i propri fondamentali macroeconomici, alla regola del rigore. «Nulla è più ingannevole di un fatto ovvio», come direbbe Sir Arthur Conan Doyle, per bocca di Sherlock Holmes. All’Europa a due velocità, salvo sorprese, non corrisponderebbe una banca centrale a due velocità, né un ritorno alla sovranità monetaria per i Paesi della periferia.

Tradotto: gli Stati dell’Europa cadetta rischierebbero di perdere i benefici della politica monetaria – soprattutto quella non convenzionale – della Bce senza poter contare sulle proprie gambe, considerata la loro permanenza nel Sistema europeo delle banche centrali. Vale la pena ricordare che il Trattato di Maastricht, a tal riguardo, è chiarissimo: la Banca centrale europea, nessuna banca centrale nazionale, nemmeno un membro dei rispettivi organi decisionali, possono accogliere sollecitazioni dai governi degli Stati membri. Totale indipendenza. Nelle decisioni ordinarie (tassi d’interesse), nel ricorso a strumenti “non convenzionali” (quantitative easing).

In un quadro siffatto, i Paesi della periferia sarebbero canne al vento, con i loro debiti in balia della speculazione finanziaria, costretti, comunque, a rigare dritti, per quanto riguarda il contenimento della spesa pubblica, con o senza soggezione formale al patto di stabilità (fiscal compact). Due velocità, stessa direzione. Su quest’ultima, d’altro canto, il documento finale dell’ultimo Consiglio europeo non lascia dubbi: «Il programma di riforme posto in essere dall’Ue e dai suoi Stati membri a seguito della crisi del 2008 sta dando risultati», perciò «devono essere proseguite le riforme strutturali volte a modernizzare le nostre economie e occorre rafforzare le finanze pubbliche».

A dimostrazione di come funzionerebbe il nuovo gioco europeo, possiamo riportare le parole pronunciate dal nostro presidente del consiglio nell’imminenza del vertice di Versailles: «L’Europa a più velocità non va vista come un complotto contro l’Italia. L’Italia è tra i Paesi promotori di quest’impostazione, saremo protagonisti di questo processo». Protagonisti, virtuosi, tra i “migliori”. Costi quel che costi. D’altronde, il periodo è propizio per dar conto della propria (buona) volontà: si lavora al Documento di Economia e Finanza (Def), nel quale dovrebbe essere confermato l’aumento di tre punti delle aliquote Iva, sia di quella ordinaria che di quella agevolata, ed un taglio alla spesa pubblica nell’ordine dei 5-7 miliardi, comprensivi degli 850 milioni promessi a Bruxelles nella letterina di febbraio.

Un modo per ammazzare in culla la speranza di una, seppur timida, ripresa della nostra economia, come, giustamente, hanno fatto notare alcune associazioni di categoria. E’ stata stimata la perdita di un punto di Pil in tre anni, in conseguenza di questa manovra. Ma tant’è. Nel frattempo è entrata in vigore la flat tax per i paperoni stranieri. Forse il governo pensa che la contrazione dei consumi, indotta dall’aumento dell’Iva, potrà essere compensata dallo shopping dei nuovi residenti, qualche centinaio di persone, tra calciatori, cantanti ed emiri. E non è uno scherzo.