«Ho scelto il sollevamento pesi perché non ne sapevo nulla e perché sono rimasta molto affascinata dal fatto che questi uomini lavorano in un isolamento totale e sono ossessivi. Sembra che non abbiano una vita al di là del sollevamento. Lo sport non mi interessa ma mi interessano le ossessioni». Con queste parole pronunciate dalla regista svedese Mai Zetterling si apre uno degli otto episodi di Visions of Eight. Ciò che l’occhio non vede (1973), il film ufficiale delle Olimpiadi di Monaco 1972 commissionato per la prima e unica volta nella storia a un pool di autori (e a Henry Mancini per la colonna sonora): Yuri Ozerov firmò il capitolo The beginning su preparazione e ansia pre-gara; Arthur Penn The highest sul salto con l’asta; Michael Pfleghar The women sulle atlete; Kon Ichikawa The fastest sui 100 m; Claude Lelouch The loosers sulle diverse reazioni di chi viene sconfitto; Miloš Forman The decathlon con sarcastici accostamenti tra gare e numeri musicali tipici bavaresi e John Schlesinger The longest che documenta la maratona dal punto di vista del corridore britannico Ron Hill.

ZETTERLING, che accettò la commissione al posto di Ingmar Bergman, curò l’episodio The strongest in cui a farla da padrone sono i corpi dei pesisti. Montagne umane concentrate su movimenti ritualizzati per sollevare in sicurezza pesi che solo individui eccezionali possono affrontare. E infatti, quando finiscono le gare e l’esercito della Germania occidentale smonta le attrezzature, ci si mettono in cinque per spostare a fatica un bilanciere. Ci sono i corpi tozzi e compatti dei pesi piuma e quelli possenti, panciuti, con colli taurini e arti grossi dei pesi massimi. Giunture fasciate, fronti imperlate di sudore, volti paonazzi. Per nutrire loro e tutti i convenuti al grande evento sportivo, vengono messe a disposizione enormi derrate alimentari, scorrono verso le cucine poderosi quarti di bue, teglie di uova, vassoi di verdure imburrate. Vigorosi e ipernutriti, questi sportivi sono tra gli uomini più forti del pianeta. Sembrano pronti a sollevare sulle proprie spalle la Terra intera come Atlante ma non sono dei bruti – uno si lascia pettinare con devozione da un compagno di squadra – e non sono neppure invincibili. C’è chi cede alla tensione o alla fatica, chi soffia e scalcia come un toro ma poi non riesce quasi a levare il peso da terra.

ERANO PESISTI come loro alcuni degli atleti israeliani uccisi tra il 5 e il 6 settembre 1972 dai fedayn dell’organizzazione Settembre Nero penetrati all’alba nella palazzina 31 del villaggio olimpico. Il film di Zetterling non lo dice ma vedendolo ci si pensa, come se quei corpi massicci fossero un codice cifrato, una forma di mediazione rispetto a un reale che la committenza non volle guardare dritto in faccia. Ciò che l’occhio non vede quasi non mostra ciò che di più macroscopico si presentò al mondo durante quell’Olimpiade: l’irruzione della morte nella messa in scena irenica e l’infrangersi della retorica olimpica contro la realtà dei conflitti aperti. A parte un breve riferimento nell’incipit del film, solo John Schlesinger nel raccontare la maratona, gara che tradizionalmente chiude l’olimpiade, rende l’atmosfera assurda in cui si svolse quell’anno e il diniego di chi, malgrado l’orrore della strage appena consumatasi, gareggiò perché la macchina guidata dall’allora presidente del CIO Avery Brundage aveva deciso di non fermarsi. «L’impatto su di me di quel che è successo è che mi hanno spostato la gara di un giorno», afferma il maratoneta Ron Hill mentre scorrono le prime pagine dei giornali con la notizia delle vittime. «Cerco di non pensarci perché probabilmente mi destabilizzerebbe. Devo stare concentrato. Sono qui per una cosa sola: correre la maratona e non avere distrazioni. Evitare anche di pensare all’enormità dello stadio, a tutti quei colori, non è per quello che sono qui».

LE OLIMPIADI sono uno spettacolo globale che il cinema ha magnificato e la televisione ulteriormente amplificato trasformandole dal 1936 in poi in una ribalta senza eguali sul piano economico, per sponsor e giri di affari, ma anche politico. Prima di Monaco, l’edizione che avrebbe dovuto essere per la Germania quella del riscatto dopo i Giochi di Hitler, la piattaforma spettacolare era servita tanto al potere per esaltarsi e legittimarsi (come nel caso appunto del 1936) quanto a forme di dissenso pacifico desiderose di sfruttare la cassa di risonanza mediatica che l’evento sportivo era in grado di offrire su scala mondiale. Tra le più emblematiche quelle di Città del Messico 1968, manifestazione che non poté rimanere al riparo dal momento storico-politico in cui cadeva, con le rivolte studentesche contro la guerra in Vietnam, le dimostrazioni dei movimenti per i diritti civili, l’assassinio di Martin Luther King e il colpo di mano delle dittature in America Latina. A dieci giorni dalla cerimonia di apertura, i sanguinosi scontri di Tlatelolco tra polizia e studenti mobilitati contro l’occupazione militare dell’università statale fecero circa trecento vittime. Al regista Alberto Isaac, che realizzò il film ufficiale dei Giochi, il governo messicano impedì ogni riferimento a quell’episodio. Ma quella fu anche l’olimpiade del «black power salute», il pugno alzato di Smith e Carlos sul podio dei 200 m, episodio meravigliosamente narrato da Lorenzo Iervolino nel romanzo-cronaca Trentacinque secondi ancora (66thand2nd, 2017) e a cui è dedicato il documentario Salute (2008) di Matt Norman. Il regista è nipote di Peter alias «the third man», lo sprinter australiano bianco che sul podio affiancava i due afroamericani e che con loro indossò la spilletta dell’Olympic Project for Human Rights in segno di solidarietà antirazzista. Tutti e tre dovettero subire ripercussioni dure per quel gesto, anche Norman, osteggiato ed emarginato dal sistema sportivo del suo paese che nonostante i suoi risultati non gli permise mai più di partecipare a un’olimpiade né di avere il ruolo pubblico gli sarebbe spettato. Morì nel 2006 a soli 64 anni, con la bara portata in spalle proprio da Smith e Carlos che non mancarono di sottolineare quanto alto fu il prezzo che dovette pagare il compagno per quell’avventura sportiva e civile. Quanto accadde a Monaco si spinse però decisamente oltre il gesto simbolico. Nel documentario One day in September di Kevin Macdonald (1999), che ricostruisce la strage del ’72 con interviste e immagini di repertorio, l’allora responsabile del villaggio olimpico Walther Tröger racconta che il leader del commando palestinese Issa gli disse: «Ci avete offerto un palcoscenico e noi lo stiamo usando come possibilità per aprire gli occhi di milioni di persone sulla nostra causa».

L’EPILOGO di quella vicenda fu estremamente costoso in termini di vite umane. Infatti, chi tiene le leve del potere spesso non si fa alcuno scrupolo a sacrificare la manodopera di cui si serve. Così avviene nell’operazione segreta «Ira di Dio» ordinata da Israele per uccidere i responsabili della strage di Monaco ancora sparsi per il mondo che Steven Spielberg ha raccontato in Munich (2005) come una revenge tragedy, inspirandosi al libro Vendetta di George Jonas. Eric Bana è Avner, uomo del Mossad che finisce psicologicamente annientato dalla missione e smarrito nella propria stessa identità di agente segreto e figlio di agente al servizio di uno Stato che ha preferito la rappresaglia privata a un regolare mandato di cattura internazionale con processo ai responsabili. Usato per colpire anche bersagli estranei alla strage, Avner si sente tradito da Israele e sceglie di non farvi più ritorno esiliandosi negli Stati uniti. Un film nerissimo su vite usate strumentalmente dalla ragion di stato e da essa lasciate a soccombere sotto il peso schiacciante della Storia.

2. continua