L’articolo di Piero Bevilacqua Il silenzio dell’università e le responsabilità del ceto politico (il manifesto, 2-10-2020), porta l’attenzione sulla crisi profonda che attraversa l’Università italiana. “La nostra Università, quale protagonista attivo della vita civile del Paese, non c’è più”, scrive Bevilacqua, “e non l’ha uccisa il Covid 19, ma un insieme di processi e di scelte, che l’hanno radicalmente trasformata”.

Condividiamo le preoccupazioni di Bevilacqua sul futuro dell’università e molti punti che tocca nell’articolo, con due osservazioni che riguardano in generale il dibattito su questi temi fuori e dentro l’università.

La prima è che spesso, in questo dibattito, manca un attore: i docenti. Come se il mondo dell’università fosse stato aggredito e impoverito solo dall’esterno.

Su temi come questo, soprattutto per le forme in cui entrano nel dibattito pubblico (di università si parla quasi soltanto in presenza di scandali concorsuali), la critica senza autocritica non funziona.

I docenti che hanno governato l’università in questi anni, di motivi di autocritica ne hanno non pochi.

L’università italiana è un Giano bifronte: è un insieme di iper-capitalismo (i processi di cui parla Bevilacqua, in cui tutto viene quantificato, individualizzato e quasi spogliato di senso), e feudalesimo (la vecchia università baronale).

I due processi non sono affatto in contraddizione: l’università feudale resiste benissimo dentro l’involucro dell’università neoliberista. L’avanzamento per legami di fedeltà e dipendenza personale, la richiesta ai ricercatori precari di essere un’estensione della volontà, degli interessi e del pensiero dei docenti più forti, le pessime pratiche concorsuali, non sono affatto diminuite.

Per molti giovani la generazione dei “maestri”, che è stata portatrice di quell’afflato sociale che a noi mancherebbe, sono, più prosaicamente, i baroni, entrati all’università quando era assai più facile farlo, lasciandoci in eredità un infernale intreccio tra la riproduzione dei vecchi modelli di gestione del potere e l’applicazione burocratica di principi pseudo-meritocratici.

Veniamo così alla seconda osservazione, relativa alla lettura che si dà dei caratteri distintivi delle nuove generazioni di ricercatori, definiti in negativo a fronte della generazione degli insegnanti “che da studenti hanno attraversato l’esperienza del ’68 e si sono formati nell’Italia delle grandi manifestazioni di massa”.

Emerge nell’articolo la figura di giovani “privi di legami con la vita politica e culturale della società”, politicamente subalterni e produttori seriali di articoli e saggi di scarso valore.

Conosciamo tantissimi giovani ricercatori appassionati, competenti, che, pur nel difficile contesto in cui si trovano a lavorare, coniugano rigore scientifico e impegno sociale e politico. Molti di loro lo fanno in una condizione prolungata di precarietà, e alcuni, pur meritandolo, non diventeranno mai strutturati.

E’ già una prima forma di responsabilità sociale svolgere con competenza, passione e impegno il proprio lavoro, in condizioni tanto avverse. Quello che manca è il protagonismo pubblico? Siamo sicuri? Chi si è opposto, per esempio, alle controriforme universitarie come quella di Mariastella Gelmini, gli studenti e i giovani ricercatori, o “i maestri”? La domanda è retorica.

I docenti hanno accettato queste riforme, perché gli hanno consegnato più potere.

Quello che stona è lo strano effetto di autoassoluzione di generazioni e di un corpo docente che hanno costruito l’università (e la società) di oggi, e la conseguente stigmatizzazione delle “vittime”.

Non avviene solo nell’università. Avviene ogni volta che, spesso con toni paternalisti, un giovane del sessantotto critica i giovani di oggi denunciandone l’apatia e l’incapacità di assumere protagonismo.

Senza considerare che oggi le opportunità sono assai più ridotte, che è molto più difficile esprimere conflitto, e, soprattutto, senza una seria autocritica sull’università e la società che hanno costruito.