Il pensiero vivente del cinema italiano
Rivista Esce il 13 dicembre in libreria il numero 30 della rivista "Fata Morgana" che festeggia i suoi dieci anni di vita con un numero speciale sull'Italia
Rivista Esce il 13 dicembre in libreria il numero 30 della rivista "Fata Morgana" che festeggia i suoi dieci anni di vita con un numero speciale sull'Italia
«Fata Morgana», la rivista quadrimestrale di Cinema e Visioni diretta da Roberto De Gaetano, ormai giunta, dopo dieci anni, al numero 30, continua a prestare molta attenzione al cinema italiano, alle modalità specifiche del rapporto con il territorio in cui si fa e con la vita, il lavoro, il linguaggio, di quelli che lo fanno: attenzione mai venuta meno, ribadita da questo numero 30, che si ricollega idealmente ai tre volumi di quel «Lessico del cinema italiano», sempre curato da De Gaetano, di cui s’è parlato anche su Alias qualche tempo fa.
È in questo senso che il nostro cinema, almeno dall’avvento del neorealismo in poi, si è posto come esempio di quel «pensiero vivente» di cui Roberto Esposito aveva rintracciato le orme già nella specificità della filosofia italiana, a partire da Machiavelli, Campanella, Giordano Bruno, Vico, Galileo e altri, fino a Gramsci: pensiero vivente o pensiero per immagini, tattile, carnale, materialistico, o contaminato felicemente dalla poesia, come in Leopardi. Immagini-emozioni, immagini-passioni o meglio, immagini-affetti, come preferisce chiamarle Giovanni Carreri, già studioso degli affetti letterari generati dalla Gerusalemme Liberata del Tasso sulla pittura italiana successiva (i Carracci, Tiepolo), che qui parla del film di Pietro Marcello, Bella e perduta, con puntuali rimandi alla Pathosformel di Aby Warburg.
Bello e perduto è, nel film di Marcello e nella lettura di Carreri, il territorio contaminato della Campania, intriso dai veleni, per il quale si aggira un Pulcinella malinconico, impossibilitato a deporre la sua maschera, perché ormai non è altro che Maschera – ma anche «Fata Morgana», dedicando il suo numero 30 al cinema italiano, si trova a dover fare i conti, in qualche modo, con un oggetto bello e perduto, se è vero, com’è (purtroppo) vero, che il cinema italiano non esiste quasi più – o almeno, sembra aver perduto quella capacità di accostamento simpatetico alle cose, ai volti, ai corpi, al paesaggio, alla luce, alle voci, che un tempo lo contraddistingueva.
IL PIÙ GRANDE FILM ITALIANO
Così, «Fata Morgana 30», nel chiedere ai suoi collaboratori e ad alcuni prestigiosi intellettuali di scrivere qualcosa su quello che ciascuno considera «il più grande film italiano» (di tutti i tempi), oppure chiedendo a registi, autori, attori di cinema e di teatro, e operatori culturali, italiani e stranieri (da Toni Servillo a Bob Wilson) una sorta di censimento di «memorie, immagini e amori» (cinematografici) non può ricevere, salvo qualche eccezione (il film di Pietro Marcello, appunto, oppure Corpo celeste di Alba Rohrwacher, di cui parla Nadia Fusini, o Fuocoammare di Gianfranco Rosi, scelto da Francesco Faeta), altro che risposte per così dire «archeologiche», riletture di classici riconosciuti (di Antonioni, Fellini, De Sica, Bertolucci, Rossellini, Ferreri, Pasolini ecc.) oppure escursioni eterodosse in direzione di prodotti apparentemente «minori» (o comunque meno considerati – cfr. per esempio l’intervento di Gianni Canova su Estate violenta di Zurlini o quello di De Gaetano su Io la conoscevo bene di Pietrangeli.
PROSPETTIVE INEDITE
Ma non poteva essere che così. In fondo, questo volume si rivela come una raccolta di dichiarazioni e confessioni d’amore, sul filo della memoria, nei confronti di film visti in passato, magari anche «grandi» e prestigiosi, ma che hanno colpito il soggetto scrivente soprattutto per qualche privato «affetto». Lo spiega bene, già dal primo intervento della serie, Maurizio Bettini, che parla delle ragioni misteriose per cui, tra le migliaia di «larve fantasmatiche» che la cinematografia ha impresso nella sua memoria, gli vengano in mente, prima di tutto, immagini e personaggi dell’Oro di Napoli di De Sica.
Da queste riletture, comunque, emergono prospettive decisamente inedite. Per esempio, il tema della voglia non di cambiare identità, ma di perderle tutte, svolto da Felice Cimatti a proposito di Professione: reporter di Antonioni, o le osservazioni di De Gaetano sull’Adriana (Stefania Sandrelli) di Io la conoscevo bene come personaggio vuoto, caratterizzato da una quasi completa assenza di particolarità. Nulla accade ad Adriana, nulla le appartiene davvero, neppure il suicidio. Quasi allo stesso modo, Pietro Montani evidenzia in Lamerica di Gianni Amelio il progressivo svuotamento, da parte del protagonista, di ogni punto di riferimento identitario, fin quasi all’identificazione col vecchio albanese mezzo svanito di cui ci si voleva servire per i consueti intrallazzi economici.
Così, il Casanova di Fellini diventa, nella prospettiva di Paolo Fabbri, un «sinistro Pinocchio», che rifiuta fino alla fine di diventare umano, di abbandonare la sua condizione di burattino, fino a congiungersi, nella morte, con un’altra marionetta, ballando con la bambola-automa , fantasma del femminile. Così Massimo Donà parla del delirio di fantasmatizzazione di cui cade preda il protagonista di Blow-up; e Valerio Magrelli proietta sui personaggi dei Vitelloni la luce misteriosa della poesia.
Poi ci pungono soprattutto corpi, volti e gesti, ci pungono nel senso di Roland Barthes: la Magnani, Accattone, Totò dipinto di verde, Ingrid Bergman, la Vitti ecc. impongono la loro flagranza nel cuore stesso dell’apparire Dichiarazioni, confessioni, omaggi d’Amore, per quello che il cinema italiano è stato e non riesce più a essere. Magari questo (ma purtroppo ci credo poco) fosse l’auspicio per un nuovo inizio…
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