Portava loro il «dono delle lacrime». Così, in una lettera inviata al priore della certosa di Treviri, il priore di quella di Colonia descriveva l’operato tra i fedeli di un «uomo di grande santità», ospite a Magonza. Era il 31 maggio 1543 e tre anni dopo, chiamato come teologo per l’occasione, mentre si accingeva a raggiungere il Concilio di Trento, quell’uomo – che rispondeva al nome di Pierre Favre – moriva di fatica mentre preparava il suo ennesimo viaggio. «Trent’anni di studio, qualche anno di ministero itinerante. Questa fu la sua vita». Così scriverà di lui Michel de Certeau, citando per l’occasione i versi di Gerard Manley Hopkins: «Sembrare straniero è la mia sorte, la mia vita / tra stranieri».
Di Favre non si hanno ritratti, «solo la sua opera lo dipinge». Eppure, la sua vita si incardina fra eventi cruciali. Tre su tutti: il 1517 (aveva allora solo undici anni), quando il frate agostiniano Lutero affisse le sue celebri 95 tesi sulle indulgenze sulla porta della chiesa del castello di Wittenberg; il 27 settembre 1540, quando Paolo III approvò la Compagnia di Gesù; il 15 settembre 1545, giorno in cui ebbe inizio il Concilio di Trento.
Di quest’uomo di «grande santità», dal 1525 compagno «in lotta e spirito» di quell’Ignazio di Loyola che incontrò a Parigi, restano molte tracce. Su tutte il Memoriale che a partire dal 1542 stese con scrupolo e rigore. Accanto all’Autobiografia e agli Esercizi spirituali di sant’Ignazio, il Memoriale è fra i principali documento della spiritualità della Compagnia. Un testo – o meglio: un insieme di manoscritti – di cui, nel 1960, un suo conterraneo savoiardo, Michel de Certeau curò l’edizione critica forse più accreditata e conosciuta, dedicandogli saggi – pubblicati su Christus e sulla Revue d’ascétique et mystique – che occuperanno gran parte della sua attività di ricerca. Di questa attività di ricerca – iniziata sulle pagine della contrastata Christus, a cui collaborava con un ex compagno, François Rostang – è prova il libro, da poco edito da Jaca Book, per la cura di Luce Giard: Pierre Favre (pp. 92, euro 12).
Il lettore più attento ricorderà che il volume era già apparso una prima volta come capitolo di Politica e mistica (Jaca book, 1975), ma ripresentarlo ora in forma autonoma – dopo la canonizzazione a santo, avvenuta il 17 dicembre scorso a opera di un altro attento «lettore» di Favre, Papa Francesco – ha un senso tutto nuovo. Anche per l’annunciato ritrovamento di un manoscritto inedito di de Certeau, dato di prossima pubblicazione.
Michel de Certeau osserva che Favre scrive male, ma possiede una lucidità unica. Una lucidità che gli proviene più da un affinamento della simpatia, che da lucidità di analisi. Le sue parole spesso si perdono nel dettaglio e la sua frase deve continuamente riprendere un filo abbandonato molte pagine prima. Eppure è proprio qui, in questo movimento che non sa insediarsi nell’opera, ma la sa spiazzare e attraversare, che risiedono il suo fascino e la sua attualità. Non presidia l’altro luogo della scrittura, così come non riuscirà mai a insediarsi in una città, pur visitandole tutte, così sarà per la scrittura del Memoriale, a cui si dedica a partire dal 1542, all’età di 36 anni. «Pellegrino che non arriva mai, ma che mai si arrestava, continuava la sua corsa», sul foglio come nella vita.
Del Memoriale di Favre, Michel de Certeau ricordava che non andrebbe mai considerato un mero resoconto di ricordi e fatti materiali. Al contrario, è uno strumento di lavoro, operativo. I fatti, d’altronde, non si risolvono in date, anche se le date sono importanti. Nel Memoriale, nonostante segnino un’apparente discontinuità, le date interne sono tutto. Iniziato il 15 giugno 1542, in un solo anno, tra Magonza e Spira, Favre stese la maggior parte delle pagine. Pagine poi riprese nei suoi ultimi cinque mesi di vita. Perché iniziò a scrivere? Favre parla di «un desiderio intenso». Il fine – se così si può dire – di questa scrittura è radicato nel futuro, non nel passato. Si tratta, certo, di ricordi, ma Favre non scrive per ricordare o essere ricordato. La polarità temporalità del ricordo è volta all’azione, anche. Viaggiatore infaticabile, Favre non lascia che tenui tracce dei suoi numerosissimi viaggi apostolici. Di un altro viaggio «parlano» le sue memorie.
Favre, figlio di umili pastori, in un’epoca di scissioni e ferite, non si nega al mondo, ma non si preclude per questo la terra incognita ma concretissima dell’esperienza spirituale, dove si mette alla ricerca «di un altro Favre».
Conquistar y pacificar è stata la formula dei colonizzatori di ogni tempo e di coloro che si installano in un luogo codificando relazioni mortifere con lo spirito incerto della frontiera. La catturano, la inglobalo, la trasformano in un confine troppo certo per suscitare tonalità emotive che non siano quelle della paura. Ma poi c’è chi attraversa, chi cerca, chi si mette in movimento per andare proprio là dove nulla è ancora codificato: né una storia, né una vita, né una parola, né un luogo, tantomeno un destino. Nemmeno il volto di Dio, perché Dio, per chi crede forse ancor più che per chi non crede, è proprio ciò che si sottrae a ogni localizzazione. Per chi crede valgono infatti le parole di Luca (17,25): «Vi diranno: Eccolo là, o eccolo qua; non andateci, non seguiteli». È questa l’esperienza dello (e la speranza nello) spaesamento. Il dépaysement, la xenitéia spinse Abramo da un luogo a un altro, «senza sapere dove» (Ebrei, 11,8), per trovarvi forse nient’altro che uno spaesamento ancor più radicale e la sfida di una nuova attesa.
Caratteristica del «desiderio» di Favre è, appunto, questo dépaysement, l’essere sempre altrove, scorrere senza fine senza insediarsi in un luogo. La vita è per lui consegnata al processo delle cose. Forse questo è il punto che affascinerà più di tutti Michel de Certeau, tanto da impregnare i punti più alti della sua ricerca. Non addomesticare le frontiere: questo, l’estremo insegnamento di Favre. Se conquistar y pacificar erano e sarebbero state le parole capaci di descrivere il senso di bellicosa certezza dei colonizzatori di ogni tempo e luogo, al contrario, l’inquietudine è la chiave del pellegrinaggio infinito (materiale e interiore) di Favre. Quando viaggiava, Favre lo faceva a piedi, talvolta accettando di servirsi di un mulo. Con sé portava poche carte, quelle su cui scriveva di altri viaggi.
Per Favre ogni aspetto dell’esperienza si rivolge infatti al movimento profondo che la fonda: questa è l’opera del discernimento.In un mondo abitato da spiriti e spettri, che vorrebbero radicarsi in un «luogo» e, in virtù dei bio poteri, in quel luogo radicale che ancora chiamiamo «uomo», la lezione di Favre, il «pellegrino che non si ferma mai», può insegnare molto a chiunque la voglia ascoltare.