Sulla soglia del trionfo, l’euforia del Pdl si vena di preoccupazione. Non che ci sia davvero la tentazione di forzare per arrivare alle elezioni: per Berlusconi sarebbe troppo alto il rischio di vincerle e poi di ritrovarsi lui nel letto di Procuste in cui ha già tirato il calzino Pierluigi Bersani. Ma le paure restano tutte.

Il fantasma che turba la meritata gioia del cavaliere ha un nome preciso: tasse. Berlusconi sa di non poter ripetere la sceneggiata del governo Monti, sostenuto e poi fragorosamente rinnegato. Le sorti del Pdl e quelle del governo da Berlusconi voluto e invocato saranno per forza indissolubili. Se la politica economica di quel governo si tradurrà in martellate fiscali, il capo del centrodestra sarà il primo a pagarne le conseguenze.

La linea del Piave è il ritiro dell’Imu: senza di quella il governo Letta rischia di morire nella culla. Ma non basta, perché il gioco delle tre cartine, cancellazione dell’Imu compensata con altre e pesanti tasse, sarebbe altrettanto esiziale. La richiesta ultimativa è quindi che la politica fiscale del governo venga messa nera su bianco prima del voto di fiducia. Con tutta l’ufficialità del caso.

E’ il solo scoglio serio, l’unica incognita che ancora grava sulla nascita del governo. Ma è anche la nuvola minacciosa che seguirà passo passo il percorso del governo, minacciando sempre di trasformarsi in tempesta. E’ qui, sul capitolo tasse e politica economica, che i giochi di Palazzo e le alchimie politiche entreranno in corto circuito con la realtà del Paese, la grande assente dal giorno delle elezioni in poi e più che mai nella battaglia del Quirinale.

Ma questo è anche il fronte sul quale Berlusconi può entrare in collisione non con un Pd ridotto all’impotenza, ma con l’unico soggetto politico forte oggi quanto e più di lui: il presidente della Repubblica. Giorgio Napolitano, in materia, ha idee chiarissime. Il solco resta quello tracciato da Monti. Se l’Europa accetta di ridiscutere il suo cieco rigorismo, ottimo e abbondante. Ma nulla di più. Il rigore non si tocca.

Le altre condizioni poste dal Pdl sono meno spinose. Il governo deve nascere per durare, magari non tutta la legislatura, ma almeno un paio d’anni. Nessun problema. E’ quel che vuole anche il Colle. Il Pd si adeguerà. Deve inoltre trattarsi di un esecutivo apertamente politico, e anche qui è cosa già fatta. Resteranno ancora per qualche ora bracci di ferro su questo o quel nome, ma sono ostacoli di scarso rilievo. Il Pd non vuole che tra i ministri ci sia la Gelmini (in predicato per la Cultura): fare ingoiare ai propri elettori, molti dei quali vicinissimi a trasformarsi in ex, la più detestata tra i ministri di Berlusconi sarebbe un po’ troppo. Il Pdl, a sua volta, boccia la riconferma agli Interni di Anna Maria Cancellieri. Le parte un po’ troppo facilmente lo scioglimento dei comuni in odor di mafia, persino a Reggio Calabria ha imposto il tutti a casa. Imperdonabile. Il segnale di quale sarà la politica sulla corruzione consentita dal dominus di palazzo Grazioli non potrebbe essere più eloquente.

La terza condizione squadernata ieri mattina da Alfano è subdola, rappresenta senza dubbio un punto di mediazione con i falchi che non vedono l’ora di far saltare tutto, però non si può dire che sia irragionevole. Formula è fumosa, il significato limpido: “E’ bene chiarire che per noi non ci sarà un nuovo caso Marini. Non daremo il sostegno a uno di loro se da parte del Pd non ci sarà un sostegno reale e visibile”. In soldoni: se i voti in dissenso saranno troppi, se i mal di pancia si tradurranno in defezioni in massa (30-40 voti assenti all’appello), se addirittura si arrivasse a una scissione, il Pdl si ritirerebbe seduta stante.

Il governo, in realtà, nascerebbe comunque, anche se ci fosse un nutrito drappello di dissenzienti. Però da quel momento il percorso del governo si trasformerebbe in un Vietnam, sempre sottoposto alla minaccia dell’asse tra l’ala ribelle del Pd, il Movimento 5 stelle e Sel. Meglio chiarire le cose da subito, perché dopo “tasse” la parola più temuta è “paralisi”. Questo governo nessuno (tranne Giorgio Napolitano) lo ha voluto più di Berlusconi. Il flop sarebbe suo.

Questa, in fondo, è la contraddizione principale che aspetta il Pdl: deve darsi da fare perché il governo raggiunga risultati postivi, che tuttavia andrebbero a tutto vantaggio di Enrico Letta, trasformatosi ora in potenziale minaccia. Ma questo rischio non c’è diktat o condizione capestro al mondo che possa evitarlo.