«Non c’è trattativa in corso. Con i capilista bloccati noi non voteremo l’Italicum. Vorrà dire che Renzi lo approverà con il voto di Verdini e Berlusconi. Del resto è un anno che ci dicono che il Patto del Nazareno ha come oggetto la legge elettorale». È il giorno del senatore Miguel Gotor, storico, già spin di Bersani, altre volte a capo del gruppo di senatori che vota sì alle riforme renziane corredando il gesto con tormentati documenti di dissenso. Le tv se lo contendono. Lui scandisce le parole con cura. Stavolta, giura, se non passano gli emendamenti, andrà fino in fondo, almeno fino a non partecipare al voto. I senatori che hanno firmato i suoi due emendamenti (che ridimensionano il numero dei capilista bloccati) erano 36 a ieri pomeriggio erano 29. Reggeranno tutti alla prova del voto? Gotor è «ragionevolmente certo di sì». Ma i 29 in serata diventano 26, le senatrici Albano, Idem e Puppato annunciano comunque il loro sì finale.

All’ora di pranzo, alla riunione dei senatori Pd Renzi arriva fresco dell’incontro con Berlusconi dove ha incassato la rassicurazione che gli mancava: pur turandosi il naso, Forza Italia sosterrà l’Italicum. Di più: si impegna anche a votare il maxi-emendamento Esposito, una trappola congegnata da mano esperta (difficile che sia quella del torinese proTav, tornito in altre materie) che farà saltare una valanga di emendamenti e metterà la legge sul binario – è il caso di dirlo – dell’alta velocità. Ma Renzi, a differenza delle asprezze del giorno prima, stavolta usa «un tono mieloso, rispettoso verso le minoranze», racconta Corradino Mineo. «Forse perché non è sicuro che Berlusconi controlli i suoi nel voto finale?». Renzi continua a spiegare (il terminegiusto è minacciare) che se salta l’Italicum si va al voto. Ma non impressiona più come un tempo. «Se si andasse a voto anticipato Renzi vedrebbe Palazzo Chigi solo in cartolina» dice a Sky Alfredo D’Attorre. L’affermazione è forte. Ma è un fatto che con il ’consultellum’ Renzi, dato comunque per vincente, dovrebbe perpetuare le larghe intese. Cosa che non vuole, spiega ai senatori: «Voglio fare la legge elettorale con Berlusconi perché non voglio più governarci insieme».

Ma la guerriglia sull’Italicum va avanti. E andrà oltre la probabile disfatta del senato. Destinazione finale, il voto per il nuovo capo dello stato. È lì che Renzi si gioca la partita della legislatura. Ma anche le variegate minoranze dem si giocano la sopravvivenza: un nome platealmente frutto del Patto del Nazareno sarebbe uno smacco difficile da riassorbire, l’ennesimo dopo la lunga serie: il jobs act, l’Italicum, la riforma del senato, l’addio al Pd da parte di Cofferati. Un episodio, quest’ultimo, di cui nessuno parla volentieri ma che è il convitato di pietra dei capannelli dei dem dissidenti. Che succederà quando mezzo Pd ligure si farà espellere perché voterà un candidato diverso da quello ufficiale? La sinistra parlerà di «amara necessità»?

Esposito, ex dalemiano ex bersaniano ora in area turca frangia entusiasti del premier, depreca la minoranza: «Sono quelli che hanno mandato a sbattere Bersani, ora vorrebbero fare lo stesso con Renzi», si sfoga con un collega. Sembra alludere a Gotor. Ma i 29(-meno-3) dissidenti in realtà non sono un’area politica compatta. Ci sono bindiani, (Dirindin), bersaniani (Gotor), ’liberamente’ civatiani (Mineo, Tocci, Ricchiuti), civatiani già dalemiani (Chiti), non irregimentati (D’Adda, Manconi). C’è anche Paolo Corsini, il professore ex dc che è stato vice di Martinazzoli a Brescia. E la magistrata Doris Lo Moro, capogruppo in commissione Affari costituzionali, che ieri davanti a Renzi fa il suo coming out: senza emendamenti non dirà sì l’Italicum. L’assemblea dei senatori Pd finisce con 71 sì e un astenuto. Ma il resto dei 102 presenti non partecipano alla votazione. E non ne rispetteranno l’esito, spiega Mineo, «in forza dell’art. 67 della Costituzione e del regolamento che per gli argomenti di rilevanza costituzionale ci invita e a rappresentare la nazione e non la linea del partito».

Nel pomeriggio in aula il voto viene rinviato. L’esito è scritto. Ma fra otto giorni esatti Renzi dovrà fare il nome candidato presidente della Repubblica. Ora sa per certo che la minoranza andrà a quell’appuntamento come alla madre di tutte le battaglie.