Il Pd si impegna ufficialmente, almeno sulla carta, «a discutere con la maggioranza e il governo la possibile sospensione degli accordi di fornitura militare in assenza di risposte immediate e concrete sull’uccisione di Giulio Regeni». Alla fine di quattro ore di dibattito serrato in videocollegamento, ieri la direzione dem trova una posizione unitaria sulla vicenda della vendita delle navi militari all’Egitto. Le posizioni di partenza erano abbastanza distanti. La discussione era stata chiesta dall’ala dei giovani turchi di Matteo Orfini che negli scorsi giorni avevano depositato un ordine del giorno che chiedeva «il blocco di qualsiasi ipotesi di vendita di forniture militari del nostro Paese all’Egitto» alla luce della totale mancanza di collaborazione dell’autorità giudiziaria egiziana con quella italiana sul caso Regeni e della sordità totale del golpista Al Sisi rispetto alle campagne italiane e internazionali per la libertà dello studente dell’università di Bologna Patrick Zaky, detenuto nelle carceri egiziane dal 7 febbraio.

Ma dall’altra parte erano comunque in molti, nel parlamentino dem, a chiedere la distinzione delle azioni per ottenere la verità sul caso Regeni dall’evidentemente irrinunciabile commercio di armi con l’Egitto. Alla fine però la direzione ha votato l’impegno a portare nel governo «la possibile sospensione» della vendita delle due fregate Fremm. Una posizione diversa da quella più volte espressa da alcuni esponenti Pd del governo, e innanzitutto dal ministro della difesa Lorenzo Guerini. Tanto che nelle conclusioni il segretario Nicola Zingaretti sembra attenuare l’impatto del dispositivo approvato: «In Egitto senza un ruolo italiano, politico ed economico, il caso Regeni verrebbe archiviato. Per questo non c’è contraddizione tra il mantenere cooperazione con l’Egitto e un impegno forte e determinato per ottenere verità sull’omicidio di Giulio Regeni». Il Pd chiede anche che il governo garantisca di «attivarsi con il massimo impegno possibile, anche attraverso il coinvolgimento dell’Unione europea, per ottenere immediatamente atti concreti per l’accertamento della verità sull’omicidio Regeni e la consegna dei suoi responsabili alla giustizia». Il sottotesto è che l’audizione del premier Conte in commissione, lo scorso 18 giugno, non ha convinto neanche il partito più affidabile della maggioranza.

Nel Pd restano invece ancora molte le distanze sulla nuova versione del Memorandum d’intesa Italia-Libia che secondo il ministro degli Esteri Di Maio «va nella giusta direzione» e sul quale il 2 luglio si riunirà la commissione tecnica bilaterale. «Sulla Libia il Pd e i governi di centrosinistra hanno sbagliato tutto», sostiene Orfini. Per arrivare al no al rifinanziamento degli accordi con la Guardia Costiera libica, presto al voto del parlamento, il deputato si appella alla tradizione di quella parte della sinistra che in nome dei diritti umani è arrivata a teorizzare «la guerra umanitaria». «Non è possibile difendere la scelta del Memorandum», spiega, «bisogna ammettere che il governo Gentiloni» – che ha stretto il primo accordo con la Libia nel 2017, ministro degli interni era Minniti, Pd -, «ha accettato una violazione dei diritti umani fatta per procura dalla Guardia costiera libica con i nostri finanziamenti. Non lo dico io, lo dicono le inchieste della magistratura e le Nazioni unite». Per Orfini i (presunti) nuovi impegni del governo libico, che continua a non applicare la Convenzione di Ginevra, sono a dir poco «generici». C’è di più: a il 23 febbraio l’assemblea nazionale del Pd ha votato all’unanimità che il partito «non avrebbe più sostenuto impegni con la guardia costiera libica». «Ma se noi decidiamo una cosa nei nostri organismi dirigenti, questo impegna o no la nostra delegazione al governo?». È, di fatto, l’annuncio di un drappello di no al decreto missioni. Resta da capire se, con i voti provenienti anche da altri gruppi, sarà abbastanza consistente da metterne a rischio l’approvazione.