Foto scaccia foto. Ieri pomeriggio Nicola Zingaretti ha riaperto le porte del Nazareno ai sindacati confederali. L’immagine ufficiale dell’incontro – ostentatamente old style, tavolata con leader sindacali, segretario dem in maniche di camicia e assetto da lavoro – serve a fare da contrasto con la famigerata foto del Patto del Nazareno, quella del 18 gennaio 2014, Silvio Berlusconi sulle scale verso l’ascensore, in secondo piano un Gianni Letta soddisfatto, la giornata finì con Renzi che parlava di «profonda sintonia» con il Cavaliere.

L’incontro fra il nuovo leader Pd e il nuovo leader della Cgil, l’ex tuta blu Maurizio Landini è tutta un’altra storia. I due hanno avuto percorsi diversi e paralleli, ma i presenti parlano di un «feeling». Il tavolo è lungo: accanto a Landini, Annamaria Furlan (Cisl) e Carmelo Barbagallo (Uil) si siedono gli uomini e le donne dello staff di Zingaretti. A fare gli onori di casa Marco Miccoli, responsabile della comunicazione ma soprattutto ufficiale di collegamento con il sindacato anche nei periodi del grande freddo, quello che nell’era Bersani portava su i palchi delle feste i licenziati dell’Eutelia e precari dell’Ilva. Zingaretti offre in anticipo una bozza del documento per le europee e due temi di confronto: il salario minimo e una legge sui subappalti che va in direzione opposta allo sblocca-cantieri di matrice leghista in gestazione al senato, che i sindacati chiamano «sblocca porcate».

Le posizioni, sopratutto sul tema del salario minimo, non coincidono. «Ad oggi la proposta migliore è quella del Movimento 5 stelle, domani vedremo», spiega Barbagallo. Il punto è incardinare il salario nei contratti. Anche facendo tesoro dell’esperienza tedesca, dove il salario – attuato per iniziativa di Spd e sindacati – ha finito per penalizzare il rinnovo dei contratti. Se ne parlerà. Ma per il leader Uil è già «un ottimo avvio di discussione». Da questa parte del tavolo fondamentale è «il rilancio degli investimenti e dal rimettere al centro la questione lavoro», spiega Landini, il più cauto dei tre, «Si è iniziato un confronto e c’è una volontà a discutere diversa rispetto al passato. Ma valuteremo nel merito. Per ora sul piano economico finanziario stiamo pagando gli errori di questo e dei governi precedenti».

Il punto è proprio verificare se quello di Zingaretti è solo un cambio di stile nel rapporto con il mondo del lavoro e le sue rappresentanze – non solo queste – o un cambio di passo reale. E la verifica ha qualche unità di misura, concreta e non solo simbolica: dovrebbe per esempio portare alla proposta di modifica del jobs act (dal ritiro della legge al suo rimaneggiamento, fra i sindacati restano le differenze) ma anche a una critica alle politiche che hanno privilegiato «il profitto al lavoro» e definito il lavoratore «capitale umano». Zingaretti replica che «le persone» sono state il centro della sua campagna per le primarie. E che il senso di proporre una prima bozza del futuro programma Pd, «Italia 2030» è proprio quello di chiudere la stagione del non dialogo, «pur nell’autonomia dei ruoli di ciascuno».

L’incontro è il primo di una serie con le parti sociali. Il 9 aprile Zingaretti incontrerà Confindustria e le altre associazioni datoriali. Il giorno dopo toccherà alle associazioni e del volontariato. Ma questo primo appuntamento era quello più carico di simboli nella «narrativa» del nuovo Pd: mai più «gettoni nell’Iphone», la frase-simbolo dello scontro fra Renzi e l’ex segretaria Cgil Camusso. E il Pd plaude all’idea dei sindacati di dedicare il 1 maggio all’Europa.

Naturalmente i renziani contestano il cambio di stagione: «I sindacati sono sempre stati interlocutori del Pd, dentro e fuori dal Nazareno. Chiunque sia il segretario», attacca Simona Malpezzi, «Dove sarebbe la ‘netta’ svolta? Renzi li ha più volte incontrati». Ma la storia degli sfottò renziani ai sindacati, e in particolare alla Cgil di Camusso, è lunga e risale persino ai tempi di Palazzo Vecchio, da primo cittadino di Firenze. L’ultima volta che avevano varcato la soglia del Nazareno era stato per discutere della «buona scuola», che finì in una delle peggiori rotture con il mondo degli insegnanti.

E a Palazzo Chigi la famosa Sala Verde, quella delle trattative, era rimasta chiusa a lungo con Renzi segretario. Fino al settembre del 2016, una riapertura durata un’ora e 46 minuti. Una riunione affollatissima a favore delle telecamere con cui il premier provò a fermare il vento freddo del referendum costituzionale. Le porte furono riaperte, ma i lavoratori se n’erano già andati.