«Nonostante i loro continui teatrini, alla fine Salvini regge la poltrona a Di Maio e Di Maio regge la poltrona a Salvini. Abbiano il coraggio di dimettersi, l’Italia merita di più. Voltiamo pagina e facciamo ripartire il Paese». Da Torino Nicola Zingaretti riapre il tesseramento del Pd e chiede le dimissioni del governo. Nel pomeriggio è al fianco di Sergio Chiamparino che il 26 maggio, lo stesso giorno delle europee, tenterà la rielezione alla regione Piemonte.

Corsa tutta in salita, la sua. In linea con le scelte del nuovo Pd, anche il presidente ha voluto una coalizione aperta a sinistra, mantenendo l’alleanza con gli ex di Art.1 e con Sinistra italiana. La lista si chiama «Liberi, uguali, verdi» ed è guidata da Marco Grimaldi, consigliere regionale uscente e segretario regionale di Si. Ieri, al corteo Si Tav, i Fratelli d’Italia (che sfilavano) hanno fatto un blitz: hanno portato al sindaco un cartonato proprio di Grimaldi per fargli una foto con il suo candidato «fuori linea». Chiamparino è stato al gioco ed ha sorriso agli obiettivi.

Ieri, sempre a Torino, Zingaretti ha annunciato di aver ottenuto il sostegno dei Moderati di Giacomo Portas (che è un deputato indipendente nelle liste Pd), lista che in regione ha un suo pacchetto di voti.

Ma è il fianco sinistro della lista a dargli più problemi. A Bologna Art.1 ha riunito la sua assemblea nazionale. L’ingresso nelle liste del Pd è ormai assodato. Ma i dettagli dell’accordo non sono ancora perfezionati. Dal palco Massimo D’Alema ha elogiato lo sforzo unitario di Roberto Speranza, coordinatore di Art.1, ma lo ha definito un «gesto unilaterale» da sostenere, «spero abbia un minimo di bilateralità perché c’è bisogno di rendere visibile l’apertura a sinistra, vorrei dire a Zingaretti perfino perché sia elettoralmente utile». Speranza ha parlato di «distanze accorciate ma non azzerate», per chiarire che non è in atto alcun rientro nel Pd (e così mettere a tacere i malumori dei renziani). D’Alema ci ha messo il suo carico di critiche al suo ex partito: «Non pretendo che il Pd dica qualche parola sugli errori compiuti, pare sia interdetto, una forma di auto proibizione», «Non devono dirlo per far contento me, io sono sereno e contento lo stesso. Il problema è riguadagnare credibilità con i cittadini, con gli operai che hanno percepito il Jobs Act come qualcosa contro la loro dignità».

Il busillis sono i candidati. Della ex Ditta l’unico certo, allo stato, è proprio l’ex ingraiano poi vicino a D’Alema Massimo Paolucci al Sud. Il Pd chiede nomi autorevoli, Mdp vuole indicarne uno per circoscrizione, dunque cinque in tutto. Il Pd fa sapere che il semaforo verde arriverà solo per due. Il problema dei nomi è concreto se anche D’Alema avverte che serve «un gruppo di candidati riconoscibili, dobbiamo fare anche noi uno sforzo per individuare personalità nuove e significative». Che ancora non arrivano.

La composizione delle liste, che dovrà completarsi entro metà aprile, è un percorso ad ostacoli. Le liste sono «aperte», ma i candidati esterni al Pd – e autorevoli – sono merce rara. Al Nord Ovest Giuliano Pisapia, Carlo Calenda nel Nord est. Circola il nome di Irene Tinagli, economista già nella lista di Mario Monti poi confluita nel Pd. Molto probabile l’ex vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Luigi Legnini, protagonista della rimonta in Abruzzo. Sicuro l’assessore milanese Enzo Majorino, regista delle manifestazioni a fianco dei migranti. Al Sud, dopo il no di Mimmo Lucano, correrà il medico di Lampedusa Pietro Bartolo, simbolo dell’accoglienza e della solidarietà verso i migranti. Ormai praticamente esclusa la corsa di Elly Schlein, civatiana che ha detto no ai suoi (lista Verde Europa) e ai più radicali de La sinistra.