Il Pd e il Vietnam immaginario
Democrack La minoranza si difende. D’Attorre: «Le regole ci sono già, se vogliono usarle contro di noi lo facciano». Mucchetti: chi ha detto ’guerriglia’? Fuori i nomi Chiti: quella del comando è una logica perdente
Democrack La minoranza si difende. D’Attorre: «Le regole ci sono già, se vogliono usarle contro di noi lo facciano». Mucchetti: chi ha detto ’guerriglia’? Fuori i nomi Chiti: quella del comando è una logica perdente
«Le regole da usare contro la minoranza? Ma quali sarebbero? Ci sono i regolamenti parlamentari e lo statuto che regolano i voti in dissenso. Se vogliono usarle contro di noi si accomodino. Ma non stiano a girarci intorno, sarebbe una scelta politica». Passi il termine dissenziente (e neanche quello ’dissidente’), ma ci vuole parecchia fantasia per dare del ’vietcong’ al deputato Alfredo D’Attorre. La polemica ferragostana nel Pd assume toni grotteschi contro nemici improbabili: qualche non meglio identificato senatore della minoranza dem che, in qualche retroscena, avrebbe annunciato «il vietnam parlamentare» per il prossimo autunno quando a palazzo Madama si tornerà a parlare della riforma costituzionale. Magari con un assaggio di guerriglia oggi sulla nomina dei nuovi consiglieri di Viale Mazzini, su cui ieri i capigruppo Zanda e Rosato hanno riunito i democrat della vigilanza Rai. Nulla di fatto, si rivedranno oggi prima del voto. E invece sarà difficile assistere a un gran dibattito venerdì alla riunione della direzione del Pd sul Mezzogiorno, appuntamento destinato a non avere storia, secondo D’Attorre: «Questi sono i confronti che piacciono a Renzi: sul voto ne abbiamo fatto uno a notte fonda, sul Sud ne facciamo uno alla vigilia di Ferragosto, ci terremo la vigilia di Natale libera per la legge di stabilità».
Meglio il Vietnam immaginario, appunto, in attesa del gong estivo. La commissione per la revisione dello statuto presto farà regole più stringenti, giurano dalla maggioranza renziana, anche se la regola principale per mettere in riga le minoranze c’è già, fu proprio Bersani ad imporla nella Carta di intenti della coalizione Italia Bene Comune per ’legare le mani’ a qualche possibile dissenso specifico dei vendoliani di Sel. Articolo 10, titolo «Responsabilità», recita così: «Vincolare la risoluzione di controversie relative a singoli atti o provvedimenti rilevanti a una votazione a maggioranza qualificata dei gruppi parlamentari convocati in seduta congiunta». Per D’Attorre però ormai non vale più: «Quella coalizione giustamente si vincolava ad un programma votato dai cittadini. Ma non solo quella coalizione non c’è più, anche il programma non c’è più. Quello del governo Renzi non è stato mai sottoposto a una verifica popolare. E il governo di emergenza uscito dal voto del 2013 è stato trasformato in un governo di legislatura». Quindi Vietnam libero? Massimo Mucchetti, senatore, sfida chi ci crede: «Orfini dice che alcuni senatori minacciano di trascinare il governo in un Vietnam parlamentare. E si scandalizza. Di grazia, fuori i nomi: chi, dove, come e quando ha detto una tale sciocchezza? Il presidente del Pd risponda anche per conto dei ministri, viceministri e parlamentari che con lui discettano di vietcong, paludi e via sbarellando. Se non è in grado di farlo, avremo la triste conferma di un presidente che parla a sproposito». In realtà un ’colpevole’ c’è, e anche lui non assomiglia un comunista vietnamita. È Vannino Chiti, già ministro, già dalemiano poi civatiano, oggi senatore convinto che a palazzo Madama debbano sedere eletti direttamente dai cittadini, e cioè il contrario di quello che vuole governo e maggioranza Pd. «La logica del comandare e dell’obbedire in politica non può essere vincente», avverte. E però si autodenuncia: «Un mese fa dissi che se non si fosse aperto un confronto serio nel Pd e nei gruppi parlamentari sulla riforma costituzionale e non solo, si sarebbe rischiato un Vietnam parlamentare. E se si dice ’rischiare di’ si dice, di fatto, ’impegnamoci per evitare che’». La minoranza Pd un mese fa ha presentato le sue proposte di emendamenti alla riforma costituzionale, «non un prendere o lasciare ma un contributo per trovare l’unità del Pd, ma se si dà l’impressione che avere opinioni diverse sia frenare, sia collusione con il nemico, allora è difficile trovare una soluzione. Non vivono così i grandi partiti. Obama votò contro la guerra in Iraq ed è diventato presidente degli Stati Uniti. Qui non si vuol diventare presidenti del Consiglio ma discutere e confrontarsi come fanno i grandi partiti normali».
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