Alla fine dell’incontro bilaterale fra il premier Conte e la delegazione Pd, e subito prima di chiudersi nel vertice di maggioranza, il viceministro all’economia Antonio Misiani rassicura chi, fra i suoi, gli chiede che sta succedendo: «È andata molto bene». A Palazzo Chigi i dem, spiegano poi dal Nazareno, hanno difeso l’impianto della futura manovra per come è stata già approvata, chiedendo qualche passo avanti come il taglio delle commissioni bancarie per chi usa il ‘pos’ (point of sale, ovvero carte di credito e bancomat). Fermo restando l’obbligo, l’ipotesi è fare entrare le sanzioni in vigore contestualmente al taglio. Poi la semplificazione delle norme per partite Iva che guadagnano in regime forfettario sotto i 65mila euro. E qualche ulteriore semplificazione per gli autonomi. Il tutto anche per allontanare lo stigma del «partito delle tasse» lanciato dalla Leopolda renziana e l’accusa di essere «contro le partite Iva» lanciata contemporaneamente dal palco leghista di San Giovanni a Roma. Del resto chi sparava, da M5S a Italia viva, cercava visibilità. E un risultato anche meramente simbolico da poter agitare come feticcio di vittoria.

Ma al Nazareno la preoccupazione resta forte. Dimostrare che chiunque fa la voce grossa può mettere in dubbio le decisioni già prese ricorda le vecchie disavventure dei governi di centrosinistra. Anche il rito arzigogolato che il presidente Conte ha dovuto officiare a Palazzo Chigi per far rientrare gli attacchi ricevuti – incontri bilaterali con le forze della maggioranza, poi vertice con tutte le delegazioni, infine riunione del consiglio dei ministri – non promette nulla di buono sulla navigazione della manovra, di qui all’approvazione. Ma soprattutto nulla di buono sulla navigazione del governo. L’asse della «stabilità» fra Conte, Zingaretti e il capo delegazione Pd Franceschini tiene, e lo dimostra il confronto ruvido di ieri fra il premier e Di Maio. Ma l’altro asse, quello del logoramento, fra Di Maio e Renzi, rischia di innescare un meccanismo pericoloso.

«Ho sentito toni profondamente sbagliati alla Leopolda. Attacchi sguaiati. Noi non dobbiamo scendere su questo piano. Mi dispiace per certe falsità perché io invece ho rispetto per chi è andato alla Leopolda», dice Maurizio Martina, ieri a Gubbio per un’iniziativa elettorale. Ecco: anche la vigilia elettorale umbra è la dimostrazione plastica di quello che non va nella maggioranza. Dopo la manifestazione di sabato, la destra nazionalista ha uno straccio di unità da esibire. La maggioranza di governo invece solo attacchi «sguaiati» ed ex compagni coltelli. Con il Pd costretto a tenere i toni sorvegliati – Zingaretti non ha replicato alla Leopolda – per evitare il dilagare delle risse interne. L’eterno destino da responsabile, sempre più malsopportato al Nazareno. Paradossale per chi avrebbe preferito andare al voto lo scorso agosto. Un destino da responsabili anche al senato, sul decreto salva-imprese, sul quale il governo imporrà il suo primo voto di fiducia: i 5 stelle hanno ottenuto che saltasse lo ’scudo’ legale per i manager Ilva. Pd (ma stavolta anche i renziani) ha dovuto allinearsi. Consolandosi con un ordine del giorno che impegna il governo a tutelare il lavoro nello stabilimento tarantino.