Lo stop del Pd alla raffiche di Renzi contro il governo alla fine è arrivato. Con due pesi massimi come Dario Franceschini e Andrea Orlando. «Sulla struttura del Recovery Plan è stato fatto un lavoro positivo», dice il ministro della Cultura. «Tutto il resto, dalle accuse di moltiplicazione delle poltrone ai presunti golpe mascherati, fa parte di un dibattito strumentale che ha altri obiettivi e che prescinde completamente dal merito delle norme stesse».

Una stoccata diretta a Renzi, che in queste ore paragona Conte a Salvini nella smania per i «pieni poteri» e briga per farlo cadere. Orlando invita ad «abbassare i toni, pesare le parole, coinvolgere ed includere. Il Paese è già molto provato e non ha bisogno di altri conflitti».

Il ritardo nell’apertura dello scudo dem contro l’ex segretario e in difesa del premier ha però scatenato molti dubbi sul reale stato di salute dei rapporti tra il Pd e Conte. Quasi che, per una volta, tra Zingaretti e Renzi ci fosse una tacita intesa per far abbassare le penne all’”avvocato del popolo”, e magari per sostituirlo in gennaio, a manovra approvata, quando la discussione su come spendere i soldi del Recovery entrerà davvero nel vivo.

Al Nazareno più che rabbia verso il premier si respirano delusione e rassegnazione. «Abbiamo vinto le regionali da soli salvando il governo, abbiamo chiesto un patto di fine legislatura e i tavoli di programma si sono rivelati un flop», ragiona un deputato molto vicino a Zingaretti. «Conte non ci ha mai messo la faccia, a partire dalla legge elettorale e dalle riforme costituzionali. Si è limitato a prendere atto che non c’è accordo. Ma così si comporta un notaio, non il capo di una coalizione».

I concetti che risuonano più spesso tra i democratici sono «palude» e «dossier che vengono colpevolmente lasciati marcire», a partire dalla legge elettorale, perchè il Pd -in caso di crisi- non vorrebbe andare alle urne con l’attuale Rosatellum, ma con il proporzionale, che consentirebbe di lasciare Renzi al suo destino.

E tuttavia, anche in queste ore, come è già capitato molte volte, tocca al Pd tentare di spegnere gli incendi nella maggioranza: il ministro Enzo Amendola ha lavorato tutto ieri sulla risoluzione sul Mes da votare oggi alle Camere, idem Franceschini sul Recovery. Limare e smussare per salvare la pelle all’esecutivo, per frenare Renzi, arginare il caos a 5 stelle e anche evitare gli eccessi di Conte. «Sul Recovery ha esagerato, c’erano norme incostituzionali sui poteri dei manager, altrimenti il consiglio dei ministri non saltava», ragiona la fonte dem.

L’aria che si respira è che ci sia consapevolezza che i tanti avvertimenti di Zingaretti, da settembre in poi, siano caduti nel vuoto. E che l’avvocato ormai ci abbia preso gusto a «fare finta di niente». E quindi? «Se Renzi andrà fino in fondo è un problema di Renzi e di Conte che non sta svolgendo il suo ruolo di capo di una coalizione. Noi i voti al governo li garantiremo fino all’ultimo secondo…», spiegano le fonti Pd. Non è un benservito, e tuttavia sembra passato un secolo- e non solo un anno- da quando Zingaretti definì Conte un «forte punto di riferimento di tutte le forze progressiste, un capo di governo autorevole, colto e anche veloce e sagace tatticamente». Un entusiasmo iniziale che col tempo si è sfarinato.

Sul rapporto con palazzo Chigi il Pd tuttavia non è una falange macedone: c’è l’ala ministeriale con Franceschini, Gualtieri, Boccia e Amendola più benevola verso il premier; e quella ex renziana guidata da Andrea Marcucci che non perde occasione di manifestare la sua insofferenza e che conta 25 senatori su 35: «Conte mangia il panettone? Tranquillamente, forse anche il pandoro…», ha ironizzato ieri il capogruppo in Senato, sempre più vicino alle posizioni di Renzi di cui è stato un pretoriano. Sullo sfondo l’ipotesi del voto anticipato a primavera, che consentirebbe a Zingaretti di compilare le liste e di riprendere con forza le redini del Pd. Un’ipotesi che ad oggi non viene esclusa né caldeggiata. «Noi non abbiamo paura, siamo un partito in salute…».