«Serve un chiarimento ai massimi livelli». Dopo le regionali la tensione tra il Pd e Giuseppe Contre non si era mai alzata così tanto. Neppure nei giorni del pressing su palazzo Chigi per arrivare, finalmente, a cambiare i decreti sicurezza.

Il mancato voto di ieri alla Camera sulla riforma che consente anche ai 18enni di votare in Senato, per il Pd assume un valore più che simbolico: è il segnale che la maggioranza non funziona. Di qui le frasi dei massimi vertici del partito, dai capigruppo Graziano Delrio e Andrea Marcucci al vicesegretario Andrea Orlando. Un coro di voci indirizzato al premier, impegnato da ieri al consiglio europeo a Bruxelles. «Un confronto nella maggioranza sulle riforme ma anche sull’attività di governo dei prossimi mesi è quello che serve. Conte lo promuova», spiega Marcucci.

GIÀ, PERCHÉ LO STOP alle riforme costituzionali che servono a integrare il taglio dei parlamentari è certamente uno smacco per Nicola Zingaretti, che ha legato il suo Sì al referendum di settembre proprio a queste riforme di contorno. Ma il problema è assai più vasto. E riguarda l’azione del governo di qui a fine legislatura. «Certo, abbiamo ottenuto i nuovi decreti sicurezza, ma non è che bastano quelli per andare avanti fino al 2023», sospira un alto dirigente dem. «Dopo le regionali abbiamo chiesto al premier se ci fosse bisogno di dare una calibrata alla squadra di governo e al programma. Lui ci ha risposto “va tutto bene così”. E allora faccia funzionare le cose che evidentemente non vanno», prosegue il dirigente che chiede l’anonimato. «Questo governo è ancora in piedi perché noi abbiamo vinto le regionali da soli, ma non possiamo essere sempre noi a rimetterci».

PER UNA VOLTA LA RABBIA dei dem non è rivolta contro Matteo Renzi. Nel Pd sanno perfettamente che il senatore di Rignano briga per un rimpasto, ma stavolta c’è un obiettivo comune: costringere Conte a un tavolo con i leader per una «verifica di maggioranza». Non uno dei soliti summit notturni con i capidelegazione, ma proprio con i leader dei partiti.

Zingaretti condivide la proposta di Renzi di un «patto di fine legislatura», con alcuni punti chiari, dal Mes a come spendere i soldi del Recovery Fund, dalle tasse alle pensioni. «Questa volta abbiamo alzato la voce così tanto che Conte non potrà fischiettare come al solito», spiegano dal Pd. Renzi dal canto suo ribadisce: «Voglio un tavolo dove discutere politicamente di dossier fondamentali».

Certo, sul Mes Pd e Italia Viva sono d’accordo, molto meno sulla legge elettorale e sulle riforme costituzionali. Ma l’obiettivo è scrivere un’agenda comune per i prossimi due anni col premier. «Altrimenti vedo un quadro di sabbie mobili», dice Renzi e- per una volta- al Nazareno sono d’accordo. Almeno sul metodo.

SUL TAVOLO C’È ANCHE la manovra che il consiglio dei ministri dovrebbe varare domani. Renzi vuole cancellare plastic e sugar tax, i dem chiedono più fondi per trasporto locale, istruzione e asili nido e un taglio delle tasse sul lavoro. Ma in ballo ci sopno anche oltre 300 nomine, dalla Consap alla Zecca dello Stato, dalla Consip alla Sogesid fino ad alcune società collegate a Cdp.

«Il premier è impegnato a Bruxelles, e alla cena post-Consiglio si parla di Covid», fanno notare da Palazzo Chigi in risposta ai dem. Il punto è che Conte (smentito un suo incontro ieri con Zingaretti) teme che toccando qualche casella del governo possa venire giù tutto, soprattutto per le divisioni dentro il M5S, che ieri si sono palesate nuovamente all’assemblea dei deputati, dove ci sono state critiche all’alleanza col Pd e malumori per la ventina di assenti non giustificati al voto di mercoledì sulla Nadef (decisivo è stato il Sì di alcuni deputati del Misto).

«È un gruppo che ha qualche lacerazione, la fatica degli ultimi mesi si sente», ha ammesso il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà, presente all’assemblea. «Il voto di mercoledì ha evidenziato un malessere, io sono venuto per ascoltare e capire».

Conte non muove foglia perché teme che il fronte M5S possa cedere. Soprattutto se ci fosse una decisione sul Mes prima degli Stati generali di novembre. Per questo il premier cerca disperatamente di prendere altro tempo. Ma, al netto di Renzi, la pazienza del Pd sta finendo.