Sul numero dell’inverno 1947-48 della rivista newyorchese Possibilities, sotto il titolo My Painting si riportava una dichiarazione di Jackson Pollock (1912-1956). Egli afferma: «La mia pittura non nasce sul cavalletto». E spiega: «Ho bisogno della resistenza di una superficie dura. Sul pavimento mi sento più a mio agio». In quella occasione Pollock intende esprimere in poche frasi i suoi convincimenti di pittore e lo fa in modo piano e con estrema, succinta chiarezza. Una volta distesa la tela sul pavimento, «mi sento più vicino, più parte del quadro, perché, in questo modo, posso camminarci intorno, lavorare sui quattro lati, ed essere letteralmente nel quadro. È un metodo simile a quello degli Indiani dell’Ovest che lavorano sulla sabbia».

Da poco più di due anni Pollock abita in una farmhouse al numero 830 di Fireplace Road, The Springs, East Hampton, a Long Island. Dal retro, in lontananza, si scorge Accabonac Creek, le anse azzurre delle rive verdi dell’oceano. Vi si trasferisce il 5 novembre del 1945 con Lee Krasner, dieci giorni dopo il loro matrimonio, celebrato a New York il 25 ottobre. Peggy Guggenheim aveva fornito a Pollock i duemila dollari necessari all’acquisto e li recuperava deducendo ogni trenta giorni cinquanta dollari dallo stipendio mensile che pagava all’artista.

La casa, isolata, è sprovvista di acqua calda e di bagno, c’è una stufa a carbone e, al tempo, Pollock e Krasner non possiedono una automobile. Solo nel 1948 Pollock acquista una Model A Ford al volante della quale, la portiera aperta, lo fotografa sul prato antistante lo studio Hans Namuth. Quei freddi mesi dell’inverno sono impiegati per una prima sistemazione della casa. In primavera, stesa sul pavimento della camera da letto, Pollock dipinge a The Spring una prima grande tela The Key (149,8×213,3 cm).

«Mi allontano sempre più dagli strumenti tradizionali del pittore come il cavalletto, la tavolozza, i pennelli, preferisco la stecca, la spatola, il coltello e la vernice fluida che faccio sgocciolare, o un impasto grasso di sabbia, di vetro polverizzato e di altri materiali extra-pittorici». Il pavimento di assi di legno dell’ambiente più ampio dello studio sul quale Pollock lavorerà regolarmente fino all’agosto del 1956, è quello di un’ampia stanza quadrata che misura circa sei metri e mezzo ai lati. Pollock, ubriaco alla guida, la sera dell’11 agosto del 1956, si schianta contro un albero della Fireplace Road, poco lontano da casa, e muore.

Lee Krasner resterà in quello studio fino alla sua scomparsa nel 1984. Per oltre trent’anni al pavimento era stato soprammesso uno strato di masonite. Esso fu allora asportato ed il vecchio impiantito apparve intatto, mostrando tutte le tracce delle sgocciolature, delle macchie, degli schizzi debordati oltre i perimetri delle tele volta a volta distese.

Una fotografia azimutale a colori di Jeff Heatley ci mostra il pavimento dello studio di Pollock. Il pittore ammette: «Quando sono nel mio quadro, non sono cosciente di quello che faccio». Egli cerca piuttosto, dice, di liberare la «vita propria» che al quadro appartiene, e dunque, dice, solo «tento di lasciarla emergere». E chiarisce al proposito, in un commento al film realizzato nel 1950-51 da Namuth e Paul Falkenberg che lo riprende al lavoro: «Quando dipingo, ho un’idea di insieme di quello che voglio fare. Posso controllare la colata della vernice, non c’è casualità, così come non c’è inizio né fine». Ma aggiunge: «A volte perdo il quadro. Ma non ho paura dei cambiamenti, di distruggere l’immagine perché, torna a ribadire, un quadro ha una sua vita propria». La vita propria del quadro, dopo innumerevoli tentativi, dopo gli stordimenti e l’energia dissipata in quel suo condursi ritmato attorno alle tele; dopo i continui va e vieni danzati; dopo lo sporgersi e il ritrarsi sul ciglio del supporto a terra; dopo i precari equilibri su una gamba e le dolenzia al braccio che regge i barattoli e alla mano che sparge le colature colorate, la vita propria del quadro, dicevo, eccola emersa sul pavimento.

Flottano i pigmenti liberi nelle assonanze cromatiche imprevedute, nelle non calcolate dinamiche. Pollock, ora, qui, finalmente, sul pavimento, realizza, con l’opera sua, se stesso.