Se la crisi avesse un volto, molti spagnoli lo rappresenterebbero con gli occhi azzurri di Angela Merkel e la barba di Mariano Rajoy. Non sorprende quindi che ieri, in occasione della seconda e ultima giornata del vertice ispano-tedesco tenutosi a Santiago de Compostela, qualche centinaia di manifestanti si siano radunati intorno alla Praza do Obradoiro al grido di «Merkel e Rajoy fuori dalla Galizia». Non sorprende più nemmeno – considerati i precedenti e il giro di vite del governo in materia di ordine pubblico – che la Policia nacional abbia blindato la piazza con tre cordoni di agenti e abbia poi caricato i manifestanti che cercavano di accedervi pacificamente. E pensare che il summit era iniziato domenica in maniera molto più tranquilla, quasi spirituale, quando Angela Merkel e Mariano Rajoy sono entrati fianco a fianco nella capitale galiziana dopo aver percorso l’ultimo tratto del cammino di Santiago.
Alle lodi per De Guindo si è unito anche Rajoy: «Ha la preparazione adeguata per presiedere l’Eurogruppo – ha dichiarato. Ha guidato il passaggio dell’economia spagnola da una situazione di estrema difficoltà a una di crescita, correggendo le disparità del paese». Un’affermazione un po’ azzardata: innanzi tutto perché chiama in causa una ripresa che per ora è poco più di uno spot elettorale in vista della prossima scadenza della legislatura (novembre 2015); poi perché mette la mano sul fuoco per un personaggio che ha più a vedere col tracollo della Spagna che con la sua (presunta) crescita. Già Segretario di Stato ed economia dell’ultimo governo Aznar, Luis de Guindo proviene dal quel settore finanziario che è stato il principale focolaio di contagio del virus della crisi. Fu, tra l’altro, direttore di Lehman Brothers per la penisola iberica fino alla bancarotta del 2008 per poi passare, nel 2011, al consiglio di amministrazione del Banco Mare nostrum, salvato dal fallimento grazie all’iniezione di 750 milioni provenienti dai fondi europei per il salvataggio del sistema bancario spagnolo. Porta la sua firma una recente riforma fiscale, dal vago sentore di propaganda elettorale, che dovrebbe tagliare i costi del lavoro (Irpef) sugli stipendi fino a 25mila euro e introduce un’imposizione fiscale fissa di 100 euro per due anni sui i nuovi contratti indeterminati che non superino tale soglia.
A Bruxelles – dove il ministro ha esposto la sua riforma lo scorso 7 luglio – c’è diffidenza: si teme che il Partido popular voglia sacrificare sull’altare elettorale l’obiettivo di abbassare il debito pubblico sotto la soglia del 3% entro il 2016, come imposto dalla Ue.