Una edizione, quella del Festival del cinema europeo di Lecce (3-8 aprile) che ha riservato parecchi spunti legati alla riflessione politica, soprattutto per le personali dei maestri del cinema: riferimenti tanto più eloquenti nel silenzio imposto da Ozpetek sull’attuale situazione in Turchia, arrivato al festival a presentare Nuri Bilge Ceylan (e la sua non è certo estetica muta), e inoltre i racconti di un’epoca lontana fatti da Francesco Maselli con rinnovata energia, accolti con nteresse anche dal pubblico più giovane incantato dal bianco e nero degli Indifferenti. Lavoro politico sul campo lo ha fatto Luciana Castellina, accolta in Salento con il calore di sempre (tra i primi collettivi del manifesto c’era quello salentino), svolto tra assemblee all’università, con i militanti del Tap e i professori arrivati dall’università di Manchester per appoggiare la protesta e, come presidente onorario dell’Arci, presentare l’ultimo documentario work-in-progress di Corrado Punzi «Da pari a pari, le prime donne al voto nel Salento» dalla lotta delle tabacchine alle prime leader sindacali.
Di Agnieszka Holland premiata con l’Ulivo d’oro del festival è stata proposta la personale compreso l’ultimo Pokot Orso d’argento a Berlino. Ha rappresentato la coscienza critica della nuova generazione polacca degli anni ’80 quando con i cineasti della generazione di Solidarnosc trasformavano le sale in assemblee permanenti. Ha vissuto a Parigi durante il periodo di legge marziale, è stata chiamata negli Usa da Coppola per realizzare «Il giardino segreto», lavora attualmente tra Varsavia e gli Usa. Come Andrzej Wajda di cui è stata l’assistente, in qualche modo il suo cinema guarda sempre un po’ avanti: «Non ho fatto film sul passato, ma sul presente cercando di dare una risposta alle domande contemporanee con un approccio non nostalgico, per cercare di svegliare il pubblico, in modo che si ponga delle domande a cui si possa rispondere. Quando c’è un legame con la situazione contemporanea non mi sento nostalgica, voglio affrontare il presente.

In «Pokot» si tocca un argomento che ha molto a che fare con la contemporaneità, la protezione degli esseri viventi compresi gli animali, un film al confine non solo tra Polonia e Cekia ma anche tra diversi generi come spesso vediamo nei suoi film.

Penso di poter sfiorare il futuro anche se sono film sull’oggi: in Pokot c’è un mix bizzarro e strano di poliziesco, thriller, favola, commedia, dark, dramma. Questo film che ha richiesto molto tempo per la realizzazione, è diventato un film politico, va a toccare la divisione della società avvenuta dopo la seconda guerra mondiale.

Wajda ci ha detto una volta che aveva trovato nella sua generazione e in lei in particolare una spinta per guardare il mondo con occhi nuovi, forse oggi potrebbe dare qualche indicazione per questa attualità così confusa e pericolosa.

Questo conferma l’influenza negativa che ho avuto su Wajda (scherza). Gli eventi avvengono con grande velocità. Dopo la caduta del muro abbiamo sperato di poter vivere come negli anni trenta, ma questo comporta anche il ritorno dei demoni degli anni trenta. Questa situazione non corrisponde alla realtà. Ci sono leader che si muovono sulla base di movimenti populisti e nazionalisti, mi sorprende che ci siano elettori che decidono di seguirli sperando che trovino soluzioni ai loro problemi. Nel passato i partiti tradizionali di sinistra non hanno trovato soluzioni e questo è il risultato della loro pigrizia intellettuale. Perché è successo? Metterei in evidenza tre fattori: la globalizzazione che rende i governi incapaci di governare, credono di essere al potere, ma tante cose sfuggono al loro controllo, il vero governo è in mani internazionali e questo è frustrante per i cittadini che si sentono vittime perché perdono parte della loro identità, compreso il problema dell’ecologia che non può essere risolto a livello locale, vedi Trump che ha distrutto tutti i trattati. Il secondo fattore è la rivoluzione informatica: abbiamo pensato che la rete fosse la democrazia dell’informazione invece va a creare bolle in cui ognuno di noi è imprigionato e non può verificare se le informazioni sono vere o false, e questo cancella lo spirito critico. Il terzo fattore è la controrivoluzione: ci siamo trovati al cambiamento dei ruoli di genere: la donna ha un diverso ruolo all’interno della società, con conseguente reazione dei maschi bianchi che hanno perso un ruolo nella società e nella famiglia. I politici hanno dimostrato incapacità, i leader populisti e nazionalisti fanno finta di sapere cosa fare. E con questo non ho dato una risposta cinematografica.

Ci sono pochissimi registi che sanno raccontare il presente

Ci sono alcuni film che toccano i temi dei profughi, ma in modo superficiale, come decorazione e questo è facile per attirare favori e approvazione. È facile descrivere paura e odio, ma noi che lavoriamo in questo ambito e siamo abituati ad affrontare questi temi in maniera pratica – i cineasti, gli autori, gli attori, gli intellettuali – ci troviamo a non trovare risposte. In occidente ci siamo trovati a dover risolvere situazioni, molte popolazioni cercano di fuggire dalla morte e cercano la salvezza in Europa, ma l’Europa non può accoglierli. Questo porta gli europei a difendere i valori identitari, come vediamo in Austria, Olanda, Francia, nei paesi ex comunisti. È molto facile «mostrare» i problemi sullo schermo, ma non vuol dire risolverli e si corre il rischio che sullo schermo risultino falsi. Ci vorrebbe un approccio vero, freddo, sincero. Il cinema del futuro deve essere il mezzo in cui passa la realtà, non deve solo descriverla, ma analizzarla.
Da tempo lei ha firmato la regia di serie televisive negli Usa, cosa l’ha spinta verso la televisione?
È successo qualcosa negli anni ’90. C’era una terra di mezzo nel cinema dove si trattavano i grandi temi della società in maniera accessibile al pubblico. Questa terra di mezzo presente tra gli anni ’60 e gli ’80, è scomparsa. C’è stato un grande cambiamento come anche in ambito musicale. Restavano i due estremi, ma non la terra di mezzo. O si creava il cinema d’autore non per il pubblico, oppure il blockbuster. È stata una tragedia per il pubblico che vuole vedere i problemi ma affrontati con amore e in maniera fruibile. Così la tv via cavo ha riempito la terra di mezzo con una nuova narrativa non così commerciale con produzione diverse dalle grandi case e sono entrate HBO, poi Amazon, Netflix). Ho visto che potevo lavorare affrontando temi a me cari in maniera innovativa senza dover aspettare anni per raccogliere fondi. In Europa se si vogliono fare film secondo certi schemi ci vogliono almeno 2 milioni e grandi star che ci metti almeno due anni per convincerle a prestare il loro volto. In televisione riesci a portare attori nuovi, sinceri, diversi. Oggi affrontiamo la dimensione etica in modo diverso dalla rivoluzione sociale come facevano Stendhal o Dickens, e la gente ha voglia di vedere questa nuova dimensione etica.

E come la coinvolge la dimensione politica e storica così vitale nel cinema polacco?

All’inizio non mi occupavo di politica, pensavo che arte e politica fossero incompatibili. Durante la Primavera di Praga, quando studiavo al Famu, neanche me ne accorgevo, ma un giorno durante una manifestazione ho visto gente felice ed era raro vedere persone felici , a meno che non fossero ubriachi e ho continuato a marciare con loro.
Con quali dei registi con cui ha lavorato si è creato un rapporto più profondo?
Con Wajda e Kieslowski. Kieslowski era della mia generazione ed è stato un carissimo amico. Wajda è stata la persona più generosa che io avessi potuto incontrare, ha condiviso con me tutta la competenza della regia nel raccontare la vita degli altri. Anche Zanussi è stato importante, mi ha dato il mio primo lavoro, ha anche corso dei rischi peché ero «persona non grata» per problemi politici di mio padre. Ma Wajda e Kieslowski sono stati fondamentali