Nel panorama degli studi che si occupano della sopravvivenza dei classici antichi nella poesia contemporanea, si segnala per profondità filologica e originalità di approccio il libro di Enrico Tatasciore Moderne parole antiche Cardarelli, Ungaretti, Quasimodo, Saba e i classici (Prospero Editore, pp. XXIII-549, € 27,00), che pone in luce la storia complessa, spesso sottotraccia e piena di retroscena poco noti, del rapporto fra i principali poeti del canone primo-novecentesco e la poesia antica. Tatasciore peraltro non è nuovo all’indagine su queste tematiche, già da lui affrontate in precedenti saggi e contributi. Moderne parole antiche è però integrazione, sintesi, arricchimento, selezione di quei saggi e contributi critici e si contraddistingue per uno stile argomentativo suadente e immediato, che riesce a fargli superare, almeno in potenza, la ristretta cerchia della pura audience accademica.
Nel mondo contemporaneo il problema della versione en poète dei classici antichi, è uno dei punti nodali nella discussione sulle diverse poetiche in gioco, e sulle loro fonti. Come ha scritto Federico Condello nel volume miscellaneo, da lui curato con Andrea Rodighiero, «Un compito infinito» -Testi classici e traduzioni d’autore nel Novecento italiano (Bononia University Press, 2015), il dialogo fra l’antichità dei lirici greci e le poetiche odierne si è trasformato da un certo momento in poi in un «dialogo fra sordi». Per superare questa impasse culturale, opere filologicamente oneste e fondate come il libro di Tatasciore appaiono perciò essenziali, in quanto sondano nel merito e nel metodo le vie al mondo classico che i principali poeti del primo Novecento seguirono, al tempo della prima coupure poétique che segna la svolta verso il nuovo mondo.
Nucleo originario del libro è la riflessione secondo cui «il passato non sta mai fermo. Sollecitato, si rinnova con ciò che lo sollecita. E così, quanto alla tradizione, quella che si presenta come la tradizione appare alla fine solo una delle tradizioni possibili; e un insieme fitto e complesso di reti di tradizione avvolge l’universo della poesia con continui interni movimenti di nascita, morte, rinascita», come ebbe a scrivere a suo tempo Luciano Anceschi, introducendo l’edizione 1978 dei Lirici greci tradotti da Quasimodo. La reticolarità delle tradizioni, scrive Tatasciore sulla scorta di Anceschi, amplifica «il concetto già problematico… di tradizione espresso a suo tempo da Eliot», nello specifico dall’Eliot di Tradition and individual Talent; nello stesso tempo si configura come «un presagio di ciò che per noi oggi è la galassia culturale in cui viviamo, governata com’è dalla metafora strutturante (e destrutturante) della ‘rete’».
Di qui il metodo di indagine del volume, che sembra procedere per slittamenti e richiami ipertestuali, ponendosi sulla linea di confine fra due filologie, quella dei contemporaneisti da un lato, quella dei filologi classici dall’altro. Nella rete storico-letteraria di Moderne parole antiche restano così impigliati, per progressiva espansione dell’area di indagine, l’Ajace di Cardarelli, che costruisce il suo poemetto eroico-lirico in piena atmosfera rondista, con lo spirito e la discontinuità dell’autodidatta; Ungaretti fra ricerca di Enea, cori descrittivi di stati d’animo di Didone e recitativo di Palinuro, in una stratificazione di approcci a Virgilio che passa dal testo latino, ma anche dalle versioni rinascimentali, in testa quella di Annibal Caro; e ancora le Mediterranee di Saba, con i loro mitologemi e psicologemi; e inevitabilmente i lirici greci di Quasimodo, con la loro dimensione liminare fra riviviscenza, riscrittura, versione, traduzione e reinvenzione.
Tuttavia a partire dal modo in cui i quattro poeti di riferimento si rapportano all’antico, si apre un ulteriore bacino d’inchiesta. Le reti intertestuali che confluiscono in Cardarelli, Ungaretti, Saba, Quasimodo, si dipanano lungo molteplici cammini, aprendo all’interno del loro ambito d’azione ulteriori campi di investigazione filologica: così l’ombra del passaggio di Enea di Caproni affiora per antitesi nello spazio ungarettiano; si seguono di passaggio in passaggio le trame che legano Cardarelli e Saba alla poesia ottocentesca fin de siècle, risalendo da Pascoli a Carducci, al di là del confine e delle barricate erette contro di loro dalla nuova poesia all’inizio del secolo scorso; si sonda, in Saba, il background antropologico e l’influsso freudiano drappeggiato nella rivisitazione di quelle forme e di quei moduli espressivi neo-leopardiani che il poeta triestino frequenta. Ed è così che nel libro di Tatasciore i doppi e tripli fondi del passato in movimento, sollecitato da risonanze e sincronie, offrono il fascino di una prospettiva a largo raggio della riviviscenza dell’antico nel moderno e nel contemporaneo della poesia italiana, offrendo al crampo mentale del dialogo fra sordi un metodo, una cura, per uscire dall’ingorgo del vizio interpretativo.