Il volto di profilo di Friedrich Nietzsche prende tutto lo spazio inquadrato dall’arco scenico. Davanti gli si aggroviglia un grosso serpente bianco, all’apparenza rivolto verso l’orecchio, mentre ascoltiamo il preludio del Parsifal che va in scena a Bologna con la regia di Romeo Castellucci. Chissà quale concetto si esprime in quel volto, ci si dovrebbe chiedere. Il filosofo, si sa, non amò l’ultimo dramma di Wagner. Toccherà schierarsi per l’uno contro l’altro? Fare appello alla filosofia per arginare lo spirito della musica? Il cuore wagneriano della borghesia melomane bolognese non avrebbe dubbi, posto che ancora regga la storica rivalità con Parma ovviamente verdiana. E poi è il centenario della prima rappresentazione italiana dell’opera, che ebbe luogo proprio qui, sul palcoscenico del teatro Comunale. Oggi l’allestimento è quello realizzato tre anni fa al teatro La Monnaie di Bruxelles, sono gli stessi anche i due protagonisti, il tenore statunitense Andrew Richards e il contralto svedese Anna Larsson, mentre orchestra e coro sono giustamente quelli del teatro bolognese, sotto la direzione del maestro Roberto Abbado.

Togliere al «dramma sacro» di Wagner tutto quel che vi si è incrostato sopra, il suo apparato ideologico e le sue pericolose allegorie, sembra il primo necessario passo affrontato da Castellucci nell’accostarsi a Parsifal. Via cigni e lance e coppe del Graal, via cavalieri e scudieri e tutta la paccottiglia gotica d’occasione (che poi ci sia qualcuno che lo rimpiange non fa scandalo, anche se i rumoreggiamenti del loggione nei confronti del regista, al momento degli applausi, sembrano più un riflesso condizionato per attestare la propria presenza critica). Separare la musica, intangibile, da un’azione scenica che si è liberata per strada anche degli obblighi della trama, intesa come vicenda drammatica.

Castellucci ha creato tre grandi quadri scenici, tre visionarie immagini che non sono il contenitore di un’azione ma la fabula stessa in cui siamo precipitati, varcata la porta del teatrale paese delle meraviglie. Non a caso ci dice dei due protagonisti come di un Hänsel e una Gretel persi nella foresta (e torna in mente il bellissimo e ormai lontano spettacolo che dentro il guscio del teatro Valle, a Roma, aveva creato un altro bosco di notte in cui perdersi). La foresta magica su cui si solleva il sipario è un viluppo di rami e fronde, alti tronchi e arbusti che creano un inestricabile sottobosco. Al centro si scorge una zona più aperta e lampeggiante, attraverso cui penetra una luce mutevole, solo indizio di un trascorrere del tempo. Immaginate l’esotica vegetazione di un dipinto di Henri Rousseau, il Doganiere, ricostruita in studio per una statica messinscena fotografica di Gregory Crewdson. La stessa tinta, lo stesso clima di enigmatica sospensione. Qualcosa però vi si muove, mentre si ascolta il canto senza che si vedano i cantanti. È un albero diventato secco che crolla lentamente, è l’apparire di un cane o il passaggio in lontananza di figurette scure. È soprattutto l’agitarsi ondeggiante di una scomposta massa frondosa in cui, ci si rende conto, si mimetizzano presenze umane. Uomini-albero, come più avanti incontreremo le fanciulle-fiore, condannati a una sorta di pena dantesca.

In questa selva oscura si incontrano Parsifal e Kundry, l’innocente ancora privo di consapevolezza di sé e l’emblema della femminilità, madre e amante che può assumere anche l’aspetto infantile della bambina in cappuccetto bianco comparsa per un momento. Che lui non tanto simbolicamente slega dai lacci che la stringevano. E allora si crea un vortice che sconvolge quella artefatta natura, riportando la scena alla sua materialità teatrale, per poi farla scomparire dietro un ombreggiato panneggio dalle increspature marmoree, come sotto un sudario.

Il cambiamento della scena è radicale, nel secondo atto. Qui siamo in un opaco spazio tutto bianco e vuoto, che il velo steso frontalmente sul boccascena rende ancora più nebbioso. Siamo idealmente nell’antro dove Klingsor opera i suoi magici rituali, ne danno testimonianza le sostanze chimiche di cui da principio si leggono elencate le non sempre benefiche proprietà. Cianuro di sodio, bromuro di alluminio… Una tassonomia velenosa che introduce anche alla ambigua natura del pharmakon, a una possibile forma di medicina di cui non per caso anche il serpente è diventato simbolo. È anche, questo spazio bianco, ciò che in maniera evidente maggiormente si avvicina alle ossessive visioni dell’artefice della Societas Raffaello Sanzio, potremmo essere in uno dei tanti episodi della trascorsa Tragedia endogonidia. Una claustrofobica stanza della tortura dove un uomo in frac e un suo doppio si dedicano allo shibari, l’antica arte giapponese della legatura del corpo femminile, e danzano sul fondo le sensuali ragazze-fiore e una contorsionista si erge su un piedistallo che vien su dal basso, per poi esporvi la propria nuda natura, quel che Courbet chiamava l’origine del mondo. E intanto Kundry, in abito da sposa, riappare con quel pitone albino avvolto su un braccio, come in una celebre performance di Marina Abramovic, e forse vorrebbe sciogliersi dall’incantesimo che la lega a quel luogo, mentre ritrova Parsifal in un abbraccio che si consuma solo nella virtualità di una proiezione tridimensionale. Anna, me, now, tied – scrive a grandi lettere sulla parete di fondo. E in questo far appello al proprio nome, da parte della cantante, si misura ancora una volta il distacco dell’interprete dal canone del personaggio.

Il viaggio di Parsifal termina sul palco snudato, che si va riempiendo degli uomini e delle donne di cui fino a qui si era soltanto avvertita l’invisibile presenza corale. Un poco alla volta formano un gruppo serrato che si allarga per tutta la scena marciando senza sosta in avanti, anche se è moto solo apparente. E lo sguardo non può fare a meno di compiere una sorta di panoramica su quei volti concentrati che hanno la forza drammatica di un video di Bill Viola. Protagonista collettivo che assorbe anche la solitudine di un eroe di cui non c’è forse più bisogno.