La guerra in Libia si sposta sui contratti petroliferi. Il parlamento pro-militari di Tobruk ha mostrato ieri l’intenzione di non aderire al dialogo nazionale con gli islamisti e si è sfilato dal tavolo negoziale, previsto per il prossimo giovedì in Marocco, con la mediazione dell’inviato delle Nazioni unite, lo spagnolo Bernardino Léon.

Il pretesto per far saltare l’ultimo tentativo politico di facilitare un accordo tra fazioni è venuto dagli attacchi di al-Qubah che hanno causato 47 morti (20 sospettati sono stati arrestati ieri). I militari pro-Haftar hanno colto la palla al balzo per considerare gli islamisti come interlocutori non attendibili, sebbene siano combattenti armati jihadisti i veri responsabili delle tre autobombe (rivendicate da sedicenti appartenenti all’Is) esplose nella città. In verità i militari non hanno nessuna intenzione di riconoscere la legittimità del parlamento di Tripoli, l’unico che dovrebbe essere in funzione dopo lo scioglimento dell’improvvista Assemblea di Tobruk, stabilita dalla Corte suprema.

Tuttavia il parlamento della Cirenaica, frutto di elezioni organizzate in fretta e con scarsa partecipazione elettorale, con sede su una nave per motivi di sicurezza, piace soprattutto a Ue e Usa perché si presenta come ultimo baluardo contro i terroristi in Libia, sull’impronta del sanguinario modello di Stato contro terrorismo battezzato dal presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi.
Ma il governo di Abdullah al-Thinni ieri ha fatto un passo in più e ha minacciato di stracciare i contratti petroliferi. Dalle parole sta passando ai fatti e la sfida per ridisegnare la geografia delle compagnie di mezzo mondo che importano petrolio libico, potrebbe far tremare non pochi governi. I primi a pagarne le spese (gli italiani hanno già dato concedendo privilegi senza precedenti a francesi e inglesi dopo l’attacco della Nato del 2011) saranno i turchi, colpevoli di sostenere il parlamento islamista di Tripoli. Il governo filo-Haftar ha promesso che d’ora in poi non siglerà più contratti con società turche.

Questo avvertimento ha finalità politiche perché Ankara è rimasta la sola a difendere la legittimità del parlamento di Tripoli, così come Erdogan è l’ultimo tra i presidenti a chiamare golpista al-Sisi e a ricordare le sue responsabilità nel massacro di Rabaa dell’agosto 2013.

L’altro paese, accusato di avere simpatie per gli islamisti, è l’Iran. E così, due bombe sono esplose domenica alle porte della residenza dell’ambasciatore di Tehran in Libia. L’edificio era vuoto perché i diplomatici iraniani sono stati i primi a lasciare il paese dopo il rapimento di 7 lavoratori iraniani a Bengasi. Il grand mufti libico, Sadek al-Ghariani, aveva avvertito che gli iraniani stavano tentando di convertire i libici allo sciismo.

Simili accuse vennero mosse dai salafiti egiziani in seguito agli storici tentativi di riavvicinamento dell’ex presidente Morsi con il suo omologo di allora Ahmadinejad. Infine, il Qatar è l’altro paese ad essere accusato di fiancheggiare la Fratellanza musulmana.

E proprio i miliziani di Misurata hanno avuto un colloquio ieri con i Zintani, che sostengono Haftar. Questo tentativo in extremis di avvicinare i due più acerrimi combattenti sul campo (nei giorni scorsi sono partiti raid incrociati da Mitiga e Zintan per colpire i rispettivi nemici) avrebbe portato ad un accordo preliminare per un cessate il fuoco. L’accordo prevedrebbe l’apertura di valichi di transito per agevolare il passaggio di aiuti umanitari e lo scambio di prigionieri. Un tentativo simile lo scorso gennaio era fallito miseramente dopo poche ore dal suo avvio.
Infine, il premier Matteo Renzi ha sottolineato come la prima preoccupazione per l’Italia siano i continui sbarchi dalle coste libiche. Renzi ha avvertito che, grazie ad una capillare presenza dell’Intelligence italiana nel paese, Roma è «in grado di intervenire». Eppure il premier italiano, insieme al cancelliere tedesco Angela Merkel, punta tutto sulla soluzione negoziale e sembra opporsi ad un coinvolgimento dell’ex premier Romano Prodi, possibile mediatore nel conflitto libico, puntando tutto sull’attuale incaricato delle Nazioni unite.