Da molti anni, Gianfranco Baruchello consulta I Ching e si considera un conoscitore profondo di quel libro della sapienza divinatoria, in cui scorre placidamente la storia culturale della Cina, anche nei suoi riflessi inconsci. «Adesso i cinesi fingono che esista solo la parte finanziaria, industriale e politica, ma non è così – dice l’artista – Letteratura, filosofia e religione, da sempre, si intrecciano ed entrare in quel mondo complesso è fantastico. I Ching esprimono saggezza. Durante la loro lettura, si ha l’opportunità di porre una domanda cui segue una risposta, ma il suo significato te lo devi trovare da solo». La vita si interpreta da sé, senza scorciatoie.
I Ching sono anche definiti Libro dei mutamenti. Non è un accostamento casuale: la metamorfosi è ciò che più caratterizza l’arte non addomesticabile di Baruchello. Un esercizio del pensiero libero che agisce come un sismografo degli eventi, sia esterni che interiori, inducendo a raccogliere e interrogare le tracce di ciò che accade.

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QUESTO STRAORDINARIO sperimentatore, il più duchampiano d’Italia, nato a Livorno nel 1924, oggi è un signore novantaquattrenne che non ha perso la capacità di sgranare gli occhi per lo stupore. Basterà, per esempio, sintonizzarsi sul suo racconto divertito della spedizione di un amico – che poi è Hans Ulrich Obrist – passato una sera a trovarlo, prima di atterrare al Polo sud con un aereo ultraleggero per non rompere il ghiaccio. Oppure, sarà sufficiente ascoltare le impressioni di un suo viaggio alla volta di Hong Kong, «un insieme di isolotti gremiti di palazzi e grattacieli dove non c’è più spazio, sotto, neppure per un negozio e dove al ristorante ti danno granchi enormi» per comprendere che la capsula del tempo non è qualcosa di astratto, ma siamo noi stessi. E il tempo è quello che scivola sul nostro corpo, nei ricordi o s’impunta sul presente.
La mostra Agricola Cornelia Spa, a cura di Maria Alicata e Daniela Zanoletti (visitabile fino all’8 febbraio presso la Fondazione di via del Vascello a Monteverde Vecchio, messa su nel 1998 insieme alla moglie Carla Subrizi, docente e storica dell’arte) documenta bene, nel suo percorso di opere e testi, questa specialissima attitudine fluttuante dell’artista Baruchello.

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UN PACCO DI GIORNALI appesi a un albero e lasciati «vivere», sferzati dagli agenti atmosferici, fino al deterioramento; scatolette Manzotin bucate e osservate nel loro stato di putrefazione che, a distanza di cinquant’anni, ancora è attivo e impregna l’aria delle sue esalazioni; un allevamento di tarli scoperti per caso in una scatola di torrone, morti e resuscitati; il ciclo esistenziale del pane, seppellito e ritirato fuori; le amatissime foglie di limone, quelle di Sorrento luogo di vacanza, vivisezionate e proposte come protagoniste di narrazioni fiabesche; la polvere messa sotto conserva. E poi gli alveari che prolificano, la tosatura delle pecore, il fallimento di una attività di pastorizia e l’incentivazione, invece, della produzione di latte. La terra, l’acqua, la casa sono spazi di connessione, «reti» tese tra due mondi, quello di sopra e quello di sotto. Infine, c’è il corpo, tratteggiato con lillupuziane grafie che fermentano, generando costellazioni favolistiche. Ogni mostra di Baruchello è insieme una scrittura privata e pubblica (gli atti di ufficio e gli appunti visionari), la radiografia di un quotidiano che può diventare arte con la coltivazione – insieme a quintali di barbabietole da zucchero – di idee.
La rassegna in Fondazione racconta una stagione particolare, quella che vide dissolversi Potere operaio e le lotte politiche «sotto il peso della polizia, delle perquisizioni che molti di noi subimmo con tutti i guai che ne conseguirono» e l’avvio, per l’artista, di una nuova avventura, politica anch’essa, ancorata a un immaginario agreste. «Con la disponibilità di quattro soldi dovuti a una vendita di mio padre, comprai il primo pezzo di terra e una casa non finita, poi ho cominciato a lavorare lì con ex compagni e amici. Presto quel luogo si trasformò in una specie di cooperativa, mettemmo a coltura anche gli ettari non nostri, abbandonati dai proprietari. A Parigi proseguivo l’attività parallela dell’arte, il mercato mi premiava e con i guadagni acquistavo via via gli altri terreni. Avevamo anche greggi di pecore e le mucche. Oggi è tutto rimasto com’era, c’è ancora la stalla ma la terra è ricoperta di prato» (la nuova attività è tutta rivolta alla conoscenza, con residenze per artisti, workshop, seminari, laboratori per bambini e una grande biblioteca consultabile, ndr).
L’esperienza di Agricola Cornelia Spa durò dal 1973 al 1981, strappando la campagna alla speculazione edilizia. «L’arte – scrive Baruchello presentando la sua utopia – sarebbe potuta divenire un esempio indicativo nella soddisfazione della fame come bisogno umano, non più legata allo sfruttamento… Alla fine, ci sarebbero state tante patate da poterle regalare a tutti».

LA LAUREA in materia economico-giuridica forse gli tornò utile in quegli anni di poderose energie spese a favore dell’agricoltura e delle annotazioni creative che scaturivano da quella simbiosi. Certo è che già dalla metà degli anni ’50 si era lasciato alle spalle una carriera avviata nel mondo aziendale, interrompendo un destino di famiglia. D’altronde, durante la guerra, inviato in Russia, non faceva che dipingere e disegnare: era il suo modo di consegnarsi a una «verifica incerta» della realtà.
Saldamente legato alla terra – «è nostra madre, qualcosa che non si può evitare. Sotto di lei, c’è ancora il fuoco. Il nostro corpo sta in piedi solo perché la terra gira. Se quella calamita che è la forza di gravità per qualche motivo si rompesse, voleremmo tutti, sbattendo sul soffitto» – Gianfranco Baruchello in un’agenzia inventata dalla Fondazione ha promosso lo scambio di casse di terra tra paesi diversi. Lo ha fatto, recentemente, anche con un nipote che vive in India. Porzioni di «geografie sentimentali» vengono spedite per amalgamare mondi lontani. Una bella lezione in tempi di chiusure dei porti e innalzamento di muri.