«Destinazione Italia» è lo specchio fedele delle idee liberiste del governo per uscire dalla crisi, con una punta d’orgoglio nazionale sull’impresa italiana e la sua capacità di essere la seconda manifattura in Europa e la quinta globale, con il suo made in Italy che si associa alla domanda di Italia.
«Destinazione Italia» precede (incredibile!) le politiche industriali europee: mentre la Commissione Europea è impegnata a disegnare industria 2020 e la terza rivoluzione industriale, il governo Letta è già proiettato verso «la quarta rivoluzione industriale, basata sulla sostenibilità, unicità del prodotto e capacità di adattarlo artigianalmente a ogni richiesta».
Destinazione Italia è un provvedimento organico, legato al Documento di Economia e Finanza e alla Legge di Stabilità; cinquanta misure che vanno oltre il law making (il decreto del fare), introducendo una policy makin, cioè una politica economica capace di «modificare incentivi e comportamenti e non solo il quadro legale».
In altre parole l’Italia «è uno dei primi dieci Paesi esportatori del mondo. Si mantiene competitivo e talora leader in settori a elevato potenziale di crescita: moda, casa, automotive, beni strumentali, robotica, agroalimentare, biofarmaceutica, cantieristica navale, difesa e sicurezza…», con delle «infrastrutture di ricerca ad alto potenziale tecnologico, cluster territoriali già avviati caratterizzati da un’intensa public-private partnership e un sistema coeso di università ed enti di ricerca con una comprovata esperienza nel technology transfer».
Quindi l’Italia e la sua struttura economica portante (impresa) è coerente con la dinamica e la specializzazione internazionale; dobbiamo «liberare» questa struttura dai vincoli fiscali, giuridici, costo (lavoro) e diritto (sempre lavoro), e incentivare gli investimenti dall’estero per internazionalizzare le imprese italiane private e pubbliche (cessione di patrimonio immobiliare e mobiliare pubblico). Il pensiero del governo Letta è molto ben rappresentato nell’affermazione «la sindrome dell’outlet, per cui attrarre investimenti significherebbe svendere allo straniero per fare cassa», deve essere superata «in un mondo globalizzato», in cui «attrazione di investimenti significa crescita ed è l’opposto di delocalizzazione: per non far fuggire all’estero il Made in Italy, si deve far entrare il mondo in Italia».
Se proprio dobbiamo registrare una diversità dalle misure-provvedimenti del governo Berlusconi prima e Monti dopo, è l’assenza di impatti macroeconomici più o meno miarbolanti sulla dinamica del Pil. Forse l’esperienza ha suggerito una maggiore cautela circa l’impatto dei provvedimenti adottati, ma l’analisi della struttura portante del sistema economico italiano è, se possibile, più ideologica di quella suggerita per tanti anni da Berlusconi.
Possiamo anche, momentaneamente, accettare l’idea che ci siano dei vincoli pubblici alla crescita economica, ma questi vincoli possono giustificare una crescita del Pil del 4,4% tra il 2000 e il 2013, con un rapporto (medio) investimenti-Pil del 20%, contro una crescita del reddito del 17% della media dei paesi europei che hanno un rapporto investimenti-PIL leggermente più basso di quello italiano?
C’è qualcosa di «ideologico» e reiterato nel progetto «Destinazione Italia»: il fatto che sia ancora il «costo del lavoro» e non il «cuneo fiscale» il vincolo agli investimenti. Un punto che tradisce «ignoranza», nei migliori dei casi, o «ideologia», nel peggiore dei casi. Come è ben noto il costo del lavoro italiano è tra i più bassi tra i paesi di area Ocse e, sicuramente, tra i paesi di area euro. Non solo. Il lavoro italiano è molto flessibile: si lavora in media 1.900 ore, contro le 1.400 ore della Germania, con un numero di contratti in ingresso nel mercato del lavoro (più di 40 modelli) che non ha rivali nel consesso internazionale. A questo proposito non si sentiva proprio la necessità di introdurre un’ulteriore forma contrattuale di ingresso nel mercato del lavoro per le imprese che decidono di investire in Italia (misura n°4).
La via principale per attirare investimenti dall’estero, come quelli nazionali, è la «Valorizzazione delle società partecipate dallo Stato anche con la predisposizione di un piano di dismissioni». Si assume che un «programma di privatizzazioni e dismissioni avrebbe numerosi vantaggi: a) lo sviluppo delle Società da privatizzare, attraverso l’acquisizione di nuovi capitali italiani ed esteri; b) l’ampliamento dell’azionariato mediante la quotazione in Borsa, che consenta anche una più ampia diffusione del capitale di rischio tra i risparmiatori e la crescita della capitalizzazione complessiva della Borsa italiana; c) l’ottenimento di risorse finanziarie da destinarsi alla riduzione del debito pubblico». Passaggio che chiarisce a cosa servono gli investimenti diretti esteri. La via maestra per attirare capitali dall’estero è quella di privarsi di capitale (pubblico) nazionale. Le risorse ricavate andrebbero a ridurre lo stock di debito e, per questa via, favorirebbero l’azionariato diffuso. A questo proposito sono molte le stime delle potenziali entrate, da 5 a 25 mld di euro, sempre che sia economicamente conveniente vendere azioni di società pubbliche (partecipate) in una fase di contrazione dei corsi azionari delle imprese italiane. Alla faccia del rischio Paese recentemente paventato da molti economisti sulla scalabilità delle società italiane a prezzi stracciati.
L’attenzione ricade su alcune particolari misure, che richiamano politiche economiche già perseguite e con dei risultati, evidentemente, che il primo Ministro Letta considera positivi. Infatti, le misure adottate sono la fotocopia dei provvedimenti adottati per agganciare l’euro tra il 1992 e il 2000, mentre la riduzione del costo del lavoro assomiglia molto a quella proposta da Prodi nel 2006. A questo proposito ricordo il titolo di prima pagina de Il manifesto: «Presi per il cuneo».
I principali temi del provvedimento sono tesi a:
Pianificare la redditività dell’investimento; Adattare le regole contrattuali alle specificità dei nuovi investimenti; Rivedere la disciplina della black list; Privatizzazioni; Rivitalizzazione del mercato azionario; Credito di imposta per la ricerca e sviluppo;
Coinvolgimento del capitale privato nella realizzazione di grandi opere infrastrutturali.
La prima osservazione è di ordine giuridico. Può un provvedimento legislativo interessare così tante materie? Più in generale, il provvedimento si occupa di mercato del lavoro, di amministrazione pubblica, di fisco e reddito di impresa, turismo, liberalizzazioni, energia, ecc. Forse un po’ troppo, sia in ordine alla potenziale efficacia, sia in ordine al diritto tributario e per alcuni versi al diritto costituzionale (omogeneità dei provvedimenti).
La seconda osservazione è legata alla sostenibilità finanziaria. Al momento non è disponibile la relazione tecnica d’accompagnamento, ma tutte le misure comportano uno spostamento di risorse in entrata e in uscita. Se consideriamo le misure legate all’Imu, forse all’Iva, per non parlare del pagamento dei debiti pregressi della pubblica amministrazione verso le imprese private, occorre domandarsi quali siano le poste che si intendono modificare, sapendo bene che la crescita del Pil per il 2013 non sarà inferiore al meno 1,8%, con una proiezione per il 2014 di un più 1%, che assomiglia tanto alla danza della pioggia degli indiani.
Non solo. Molte misure non fanno altro che alimentare l’elusione fiscale. Pensate al credito d’imposta (automatico) per la ricerca e sviluppo e per l’assunzione di lavoratori con contratto particolare per gli investitori esteri in Italia.
Il Paese ha realmente bisogno di politiche economiche all’altezza. Capisco la necessità di intervenire, ma uscire dalle politiche adottate negli anni passati, che hanno dato un esito abbastanza insoddisfacente, per usare un eufemismo, era la prima riforma di struttura da adottare.