Cultura

Il paesaggio dei conflitti

Il paesaggio dei conflittiL'inaugurazione del Festival della Fotografia al Macro

Intervista Un incontro con il fotografo Gaston Zvi Ickowicz, nato in Argentina, emigrato in Israele. Che racconta le contraddizioni degli insediamenti dei coloni

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 8 ottobre 2013

Se c’è distacco, è solo apparente. O, almeno, così sembra nella circolarità della storia che Gaston Zvi Ickowicz (Buenos Aires 1974, vive a Tel Aviv) ferma nelle sue stampe digitali ai pigmenti della serie B.C. Vestiges of Bonfires (2009), esposte nella Sala Enel del Macro nell’ambito della collettiva Vacatio curata da Marco Delogu (XII edizione di Fotografia – Festival Internazionale di Roma, fino all’8 dicembre). Un ritmo remoto, lontanissimo, sfida il silenzio della sabbia dorata. Le pietre disposte in circolo restituiscono una ritualità pregna di passato. Sabbia e pietre, natura e civiltà, e l’ombra annerita di un fuoco. Sotto lo stesso cielo piatto e uniforme i passi dell’uomo continuano a procede, ma la direzione non è affatto chiara.

Avevi sei anni quando la tua famiglia è emigrata in Israele dall’Argentina. Quale è stato il confine tra la «Terra Promessa» dell’immaginario e la realtà?

All’epoca, non avevo alcun immaginario e non sapevo nulla di Israele. Ricordo che i miei genitori mi dissero che saremmo andati a vivere lì e la cosa non mi piacque, tanto che da quel momento cambiai il mio comportamento. Alcuni zii vivevano in Israele e i miei genitori volevano avvicinarsi a loro. Israele per loro faceva parte del sogno sionista e poi in Argentina c’era la dittatura e la situazione economica era critica. L’insieme di tutti questi elementi ci ha portati lì.

Quali sono le domande che ti sei posto quando hai scelto di diventare un «landscape photographer», dopo aver studiato alla Musrara School of Photography nel 2000 e aver completato gli studi alla Bezalel Academy of Art and Design di Gerusalemme nel 2009?

Non penso che si sia trattato di scelta, piuttosto è stata una conseguenza dello sviluppo del mio lavoro. Quando ero studente alla Musrara facevo ritratti, poi alla fine della scuola c’è stato qualcosa che mi ha procurato un coinvolgimento diverso verso il paesaggio, lo spazio e il panorama. Ma non è stato qualcosa di razionale.

Cosa ti ha avvicinato alla fotografia?

La fotografia era un modo per esprimere i miei pensieri e anche le mie idee sociali. La macchina fotografica mi ha permesso di vedere la realtà così come appare ai miei occhi. Quanto all’influenza del lavoro di altri reporter, questa è in continuo mutamento, dipende dal progetto del momento. In passato, posso essere stato influenzato dalla poetica di Walker Evans, come ora da quella di Taryn Simon.

Nella tua visione il paesaggio non è solo lo scenario dell’interazione di elementi socio-politici, ma diventa la chiave di lettura stessa dei conflitti che dilaniano il tuo paese. «Monument» all’interno della serie «The Settlement» è un progetto particolarmente significativo in cui metti a fuoco le diverse strategie di convivenza (estetiche incluse) adottate da una parte e dall’altra del muro costruito da Israele nel 2002. All’interno del confine israeliano, hai fotografato muri dipinti in cui c’è l’illusione di un paesaggio che attenua quella realtà cruda di cui dalla parte opposta c’è piena con

sapevolezza con il cemento armato e il filo spinato. Quali sono state le tue lotte interiori nell’affrontare l’argomento?

Per prima cosa, per me, è difficile parlare di lotte interiori. Quando lavoro si tratta di investigare. Da una parte, mi trovo davanti al muro dipinto e dall’altra quello grezzo e grigio. Prendo una posizione soprattutto quando fotografo gli insediamenti israeliani. In The Settlement non si vedono i villaggi arabi, ma solo gli insediamenti: non parlo della gente che è stata buttata fuori ma del fenomeno degli insediamenti stessi con gli occupanti e la terra occupata. Di solito, in Israele i fotografi e gli artisti che lavorano sul conflitto guardano dalla parte dei palestinesi. In questo lavoro cerco di fare la stessa cosa, ma osservando dall’interno. Il mio punto di vista politico è chiaro, ho un problema con la realtà degli insediamenti. Trovo però che sia più interessante parlare del conflitto fotografando le rovine piuttosto che gli arabi.

Emblematica una foto, in particolare, in cui si vedono delle macerie con il filo spinato e sopra la bandiera di Israele…

La bandiera fa pensare che Israele sia il vincitore, ma non è così. Attraverso quest’immagine ho capito quanto sia grande l’entusiasmo dei coloni che mettono la bandiera anche sopra le macerie, cinque minuti dopo aver distrutto i villaggi. È una cosa pazzesca.
Questa foto, in particolare, è stata scattata a Amuna (West Bank) che non era proprio un villaggio, ma un avamposto costruito illegalmente. Qualche volta, l’esercito distrugge per motivi politici avamposti come questo. La situazione politica in Israele è molto complicata. Non dico che gli arabi sono buoni e gli ebrei cattivi… è una situazione profondamente complessa.

Quanto è difficile sviluppare il tuo lavoro?

È difficile come lo è vivere in Israele.

Sei mai stato censurato?

No, mai.

Dichiari il tuo punto di vista politico, ma allo stesso tempo hai vinto importanti riconoscimenti nel tuo paese: l’ultimo, nel 2010, è il Young Artist Award del ministero della cultura e dello sport…

Per quanto riguarda i miei progetti li realizzo senza ricorrere ad alcuna sponsorizzazione. Quanto all’essere sostenuto dal ministero, direi che rientra negli aspetti interessanti sviluppati dal conflitto. Si può capire quanto sia complicato vivere in Israele anche da paradossi come questo. Da una parte, si può andare e dire quello che si ritiene sbagliato e dall’altra, si viene pure premiati.

Nelle tue fotografie di «B.C.» scattate sia in bianco e nero che a colori a Gerusalemme, Tel Dor, nel deserto della Giudea e in altri luoghi isoli e analizzi le tracce del passato con una sistematicità e una metodologia da archeologo…

Sì, è così. Ma differentemente da The Settlement in B.C. non vado nei luoghi di conflitto. In aree come Tel Dor quello che mi interessa è investigare all’interno di un sito archeologico. Nei miei nuovi lavori, infatti, cerco di dialogare maggiormente con la storia passata piuttosto che con quella attuale. Provo a capire quello che c’è sottoterra senza sapere bene sto scoprendo. In The Settlement, invece, sapevo esattamente cosa fotografavo. L’immagine può essere più o meno diretta.

Quanto all’uso del colore o del bianco e nero dipende esclusivamente da una scelta estetica.

La presenza umana è prevalentemente indiretta: ti senti più libero quando ti relazioni al paesaggio in sé, rispetto a quando davanti all’obiettivo c’è anche l’uomo?

È lo stesso, dipende dal progetto. Certo, fotografare i coloni richiede un processo lungo, una relazione che s’instaura lentamente. Non è usuale andare negli insediamenti, osservare la gente e chiedergli di poterla fotografare. Bisogna parlarci, capirsi da entrambe le parti.

L’osservazione precede sempre il momento dello scatto. La fotografia è parte di un processo di conoscenza che sembra prendere le distanze dall’immediatezza e dall’impulsività dell’attimo fuggente. In questa visione, c’è anche un’influenza di altre arti?

Sì, ma non saprei dire esattamente quali. Sicuramente, sono più influenzato dalla pittura che dalla fotografia. La mia composizione è molto classica, mi piace l’impressionismo. Quando comincio un nuovo progetto preferisco non sapere nulla, mi appunto ciò che voglio andare a vedere e, solo quando ho finito, capisco le connessioni che ci sono tra le immagini. Mi capita anche di recarmi in un dato luogo e non scattare neanche una fotografia.

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