Nel 1953, al Blackstone Hotel di Chicago, durante la festa per i settant’anni di Walter Gropius, Mies van der Rohe si alzò all’improvviso in piedi e disse: «Il Bauhaus era un’idea che Gropius formulò con grande precisione. Solo un’idea – aggiunse – ha il potere di diffondersi così lontano». Come è noto l’idea del suo fondatore aspirava a una scuola che stabilisse una nuova unità tra arte e tecnologia. La «new way of life» dell’architetto tedesco riguardava la pittura, la scultura, il teatro, il balletto, la tessitura, la fotografia, l’arredamento, insomma, per citare ancora Mies: «tutto, dalle tazze di caffè alla pianificazione urbana».
In quanto poi ai modelli pedagogici, l’istituto scolastico ne espresse molteplici nei singoli corsi (Vorkurs) e questi avevano un ruolo centrale più del programma complessivo. Tuttavia Gropius, in una lettera indirizzata nel 1963 a Tomás Maldonado, scrisse: «Mi sono sempre particolarmente imposto di non vincolare mai lo studente a un sistema finito o a un dogma, piuttosto volevo che trovasse da solo la sua strada, anche attraverso vicoli ciechi ed errori: doveva cercare piuttosto che ricercare».

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OGGETTI CHIAVE
È da queste premesse che prende le mosse Original Bauhaus, la mostra inaugurata alla Berlinische Galerie (fino al 27 gennaio 2020), promossa da Bauhaus-Archiv / Museum für Gestaltung e curata da Nina Wiedemeyer, per celebrare i cento anni della scuola più famosa al mondo nelle arti applicate e industriali. Per raccontarla si è scelto di incardinare la sua storia in quattordici oggetti-chiave (Schlüsselobjekt) che rappresentano altrettanti nodi critici intorno ai quali s’intrecciano e si connettono, tra il 1919 e il 1933, le vite di artisti e architetti cosmopoliti e vicende che tra gli eventi tragici di due conflitti mondiali, fecero presagire un «nuovo mondo» verso il quale le creazioni dei giovani studenti del Bauhaus diedero un contributo sostanziale.
Nell’ammirare le multiformi invenzioni dei Bauhäusler Sigfried Giedion, in visita alla prima sede della scuola a Weimar nel 1923, osservò che «le cose morte ricevono volto e vivacità e il ritmo delle cose si risveglia». Il nostro percorso inizia, quindi, dai loro «esperimenti creativi», come li chiamò László Moholy-Nagy.
Sono case study selezionati prescindendo dalla loro storia di oggetti standardizzati per la macchina e il consumo. La mostra berlinese si snoda, infatti, nell’irrisolta e forse centrale questione del conflitto tra norma e forma, tipo e individualità, esecutore e artista, che ha origine alla metà del secolo XIX con William Morris, ma trova il migliore e più fertile ascolto con Gottfried Semper nella cultura teorica tedesca, prima di trasferirsi nel dibattito dell’associazione degli artisti e artigiani tedeschi (Deutsche Werkbund), e poi nel Bauhaus, che ne eredita ragioni e riflessioni.
Tra queste, forse, c’è il tema più spinoso: «Che cos’è un originale?», «Che cosa significa un oggetto unico?». Sono domande che – come scrive  Wiedemeyer in catalogo (Prestel) – «perseguitano» gli storici e il mercato dell’arte sin dagli anni Venti, precisando che «sia un prodotto fosse eseguito dal lavoro umano o meccanico, sia un’opera d’arte fosse unica o multipla, sono stati gli artisti a essere favoriti da queste contraddizioni».
Perché altri erano gli scopi degli insegnanti e studenti negli atelier della scuola. C’era chi con Moholy-Nagy indagava le regole del bilanciamento in sculture polimateriche (Balance Study, 1927), chi con Josef Albers inventava sagome tridimensionali con la carta, chi ancora con Kandinsky e Klee studiava le relazioni tra il colore e le figure della geometria (Colour Circle, 1930). Non è stato semplice documentare questa fase pionieristica della didattica Bauhaus, inaugurata con l’esoterico Johannes Itten. Questa trovò nel suo successore, Moholy-Nagy, e in Albers (che di Itten fu allievo) i suoi migliori interpreti. Quando i nazisti chiusero nel 1933 la sede della scuola a Berlino dopo quella di Dessau un anno prima, furono loro a portarla avanti negli Stati Uniti: il primo fondando il New Bauhaus a Chicago, il secondo in qualità di insegnante al Black Mountain College a Asheville.

COLORI, LUCI, IMPRESSIONI
Come l’artista svizzero, entrambi erano convinti che la sviluppo della creatività avrebbe influenzato l’emancipazione sociale degli individui. Secondo quanto teorizzò Moholy-Nagy in Malerei Fotografie Film (1927), perché fosse produttivo l’impiego (sperimentale) della tecnica era necessaria la «padronanza» dei media ottici e acustici. Per contrastarne il loro uso distorto e acritico, ossia meramente riproduttivo, l’artista ungherese affermava di essere «non contro, ma con la tecnica». Solo così erano soddisfatti gli «apparati funzionali» dell’individuo che sempre «sollecita ulteriori nuove impressioni». Nel percorso espositivo, si ritrovano diverse prove di questa radicale riconfigurazione ottica (Optische Gestaltung) dell’universo del visibile, molte in senso astratto-costruttivista.
Infiniti erano gli spazi offerti per un’arte non-oggettuale che realizzasse la supremazia del colore e della luce (Lichtkultur). Lo si desume dalle opere di László e di sua moglie Lucia, ma nella grafica (edizioni dei Bauhausbücher), nella fotografia senza la macchina fotografica di Man Ray (Rayografie), Bertha Günther e Christian Schad (ancora guida ad artisti contemporanei come Stefanie Seufert o Thomas Ruff) fino ai fotomontaggi di Herbert Bayer, Roman Clemens e Marianne Brandt. Quanto poi questi «esperimenti» fossero in consonanza con le coeve indagini suprematiste (Malevic) e costruttiviste (d’obbligo una visita ai Controrilievi di Tatlin al piano superiore della Galerie) è già stato detto.
«Originale», invece, è il difficile rapporto che il Bauhaus ebbe con Dada nonostante la fallita candidatura a insegnate di Johannes Baader – protagonista berlinese di Oberdada – o le occasioni mancate di Hannah Höch di esporre i suoi fotomontaggi e acquarelli. In mostra i suoi «ritratti ritagliati», censurati per «bolscevismo culturale» dal Terzo Reich, attestano quanto il malessere del soggetto e lo stallo delle tradizionali forme di rappresentarlo, abbiano trovato nel montaggio fotografico la pratica artistica che meglio seppe interpretarne la crisi.

MONDO DADA
Senza Dada sarebbe stato mai possibile per Erich Consemüller fotografare la donna che indossa la maschera di Oskar Schlemmer seduta sulla poltrona Club Chair B3 di Marcel Breuer (1926), presa a manifesto-simbolo della mostra? O ancora, senza le pièce di Hugo Ball al Cabaret Voltaire o quelle di Tristan Tzara e Picabia alla Maison de l’Oeuvre, Schlemmer avrebbe mai concepito le figure del Balletto Triadico per le note di Scherchen?
Evidente che il mondo Dada offra più di un pretesto per tornare alla storia del Bauhaus, anche se è confermato che nei suoi quattordici anni di vita la scuola non sostenne mai una delle tendenze delle Avanguardie. Piuttosto esibì, attraverso l’interdisciplinarietà delle arti plastiche e figurative, l’attrattiva per l’«opera d’arte totale» che poi coincideva con l’architettura: il traguardo finale.
L’ultimo case-study in mostra è dedicato al Pavilion della Fiera mondiale di Barcellona del 1929 di Mies van der Rohe, ricostruito nel 1980. Terzo e ultimo direttore del Bauhaus, il richiamo all’opera culto di Mies non fa riferimento alla originaria fase della Gesamtkunstwerk, piuttosto alla normalizzazione che la scuola subì con l’architetto tedesco: ormai un istituto di «educazione architettonica» che aveva espulso l’idealismo sociale delle origini per una rigida disciplina e la neutralità politica, che poco o a nulla valsero perché il nazismo decretò poco dopo la fine del Bauhaus, cancellando così ogni altro residuo di mania modernista.

 

SCHEDA

«Versuchsstätte Bauhaus. The Collection» è il titolo dell’esposizione permanente a Dessau nella nuova sede museale progettata dai catalani di addenda architects (González-Hinz-Zabala) che si erano aggiudicati il concorso nel 2015. Non conosciamo le ragioni che hanno determinato di escludere la sede storica della scuola progettata da Walter Gropius per la collezione, soprattutto dopo l’accurato restauro conservativo dell’edificio intrapreso nel 1996. Nonostante la scelta per il nuovo algido spazio, è un importante risultato vedere collocati in maniera definitiva circa mille oggetti e opere dei Bauhäusler selezionate tra le 49mila conservate. Nel corso degli anni, i lavori degli allievi si sono aggiunti a quelli proveniente nel 1976 dalla «Galerie am Sachsenplatz» di Lipsia ed esposti per la prima volta nello stesso anno per il 50/mo anniversario del Bauhaus, quando nella Rdt l’edificio fu riaperto come Centro culturale. La raccolta, che rappresenta le molteplici esperienze creative eseguite nei vari laboratori, fornirà nuove occasioni di studio per entrare in contatto con l’unicità dell’insegnamento del Bauhaus. (ma. giu.)