Non più cenerentola. Con un intervento da quarantacinque milioni di sterline, pagato con i soldi della lotteria e il contributo di facoltosi benefattori, la «nuova» Tate Britain, che ospita l’arte nazionale, prima fra tutti una raffica di Turner, ma anche Francis Bacon, Henry Moore, David Hockney, Peter (e William) Blake, finalmente si gode la piccola riscossa sull’ingombrante tempio del cool che è la Tate Modern, la sua ex-costola dedicata all’arte contemporanea universale.
Disegnata 116 anni fa da un architetto poco acclamato, Sydney Smith, e aperta nel 1890 con duecentoquarantacinque opere in otto stanze, bombardata dalla Luftwaffe, allagata dal Tamigi negli anni Venti, oggetto di una serie d’interventi poco coesi nel dopoguerra, la Tate Britain è pur sempre un fiore all’occhiello della micidiale offerta artistica londinese e finalmente, dopo più di sei anni di lavori, ha ricevuto una nuova livrea disegnata dallo studio Caruso St John di Londra.
A ospitare il museo è un edificio cosiddetto di «secondo grado» (Grade II) che appunto identifica una struttura «d’interesse speciale», secondo la classificazione dei beni artistici britannica. Rispetto ai fasti archeologico-industriali della celeberrima rivale, che l’aveva spodestata nel 2000 in mezzo alle fanfare, questa specie di tempio vittoriano/palladiano incastonato nello skyline frastagliato dell’argine di Millbank, lungo il Tamigi, ancora tradisce la magniloquenza filantropica del patron/fondatore/donatore, Sir Henry Tate, un magnate dello zucchero che involontariamente finì per dargli il nome (dal 1932: prima avevano provato invano a chiamarla National Gallery of British Art).
Vuoi per questo limite, vuoi perché sorge sul sito di una prigione da cui partivano mercantili stracarichi di condannati inglesi verso sicura redenzione penitenziaria in Australia, e a scapito degli spazi espositivi straordinari che vanta, il palazzo aveva ormai assunto la patina tipica degli edifici pubblici vittoriani londinesi convertiti a uso pubblico o amministrativo: un senso di frusto grigiore innescato dal contrasto tra la «modernità keynesiana» della pubblica amministrazione cui erano stati adibiti e la visione nostalgico/solenne da Ancien régime che animava il progetto iniziale. Che bisognava spazzare via.
Proprio perché rivolto a un edificio non particolarmente eclatante da un punto di vista architettonico, quello di Caruso St John è stato un intervento quasi in punta di piedi. Di certo è impossibile accorgersene dall’esterno: la facciata è intonsa. Ma una volta che si è fatto il proprio ingresso dall’entrata frontale, in disuso da anni, subito ci si rende conto che qualcosa è cambiato.
Pur nella discrezione generale dell’approccio, di certo non si è voluto rinunciare a lasciare un segno «iconico» – per usare l’ormai logora aggettivazione: ecco dunque una spettacolare scalea a spirale che dalla rotonda centrale dell’edificio sottostante alla cupola porta alla Archive Gallery, nel tetro seminterrato dove si è fatto il possibile per allestire un bar ristorante più accogliente del precedente. Si tratta di una zona che era rimasta chiusa e adibita a poco più che magazzini per gran parte della propria storia, soprattutto dopo una grave alluvione del 1928.
La balaustra della rotonda sfoggia un’accattivante disposizione di squame déco che dall’alto svolgono un effetto prospettico. A parte questo pezzo di bravura, che purtroppo non sfigurerebbe al Savoy o al Claridge’s, il resto dell’intervento mira a restituire fluidità e comunicabilità fra i singoli ambienti.
Chiara è la volontà di intervenire senza creare un cortocircuito, deliberato o involontario che sia, fra il vecchio e nuovo, completando il passato piuttosto che provocarlo o, peggio, irriderlo. Particolare menzione meritano gli splendidi lampadari, che tradiscono la loro contemporaneità soltanto dallo splendore dell’acciaio su cui sono montati dei grandi bulbi in vetro: fanno pensare a quelli di… un edificio pubblico dell’inizio novecento.
Il ripristino della grandiosa entrata originale dalla facciata dell’edificio dopo anni del triste, anche se più discreto, ingresso laterale – a sua volta espressione dell’ormai lontano bisogno di mettere la sordina alla magniloquenza vittoriana di un tempo – è un altro segno del nuovo approccio. Il superamento di questa passata attitudine ai limiti dell’autocensura è stato ben definito dal padre dell’operazione Tate, sir Nicholas Serota.
Parlando di un diffuso «atteggiamento apologetico» rispetto all’edificio che aveva preso piede nel dopoguerra, come per volerne scusare la presunzione e la magniloquenza, Serota ha salutato il rimpiazzo dell’architettonicamente corretto con il senso pratico (e l’implicita «riabilitazione» della propria identità socioculturale).
Tra le mostre, Art under Attack: Histories of British Iconoclasm, che dagli assalti subiti dalle opere d’arte da parte del puritanesimo arriva fino ai fratelli Chapman. È aperta fino al 5 gennaio prossimo.