Maurizio Pollini. Meglio non dimenticarlo troppo presto. Era un gran tipo per via dell’interesse che aveva per certi contemporanei, non tantissimi: Boulez, Nono, Manzoni, Stockhausen. Senza tralasciare i «premoderni» come Debussy, i «moderni» come Stravinsky e Bartók e i «moderni che però sono contemporanei» come Schönberg, Berg e Webern, classificazione poco canonica che vale soprattutto per l’immenso Webern, le cui Variazioni op. 27 Pollini suonava peraltro in modo piuttosto classico, tradendone leggermente lo spirito autenticamente rivoluzionario (ma facevano così anche altri grandi come Glenn Gould e Charles Rosen, un po’ meno Sviatoslav Richter, ma il migliore è stato finora Carlo Pestalozza in un lp La Voce del Padrone del 1956).

Altri contemporanei come Kurtág, Xenakis, Ligeti, Sciarrino li ha divulgati tramite i vari suoi «Progetti Pollini» ma non li ha suonati da solista. In una bella intervista degli anni tardi che si trova su Youtube, lui simpatico, cordiale, colloquiale, rimpianse di non essersi concentrato su Ravel e Messiaen. Quanto ai contemporanei, di fatto dovevano essere europei a tutti i costi, degli americani (Cage, Feldman, per dire…) non ha mai suonato una nota o un segno o un quasi-disegno. Dalle nostre parti, italiane, per lungo tempo musica contemporanea voleva dire musica europea.

Eurocentrica è stata la Biennale Musica per quasi tutte le edizioni. Pollini e i suoi compagni d’avventure musicali (per un po’ anche politiche) Luigi Nono e Claudio Abbado, non smentivano la regola. Nel repertorio classico e romantico (termini semplicistici che lui criticava assai) era un razionale o razionalistico del genere, mettiamo di un Vladimir Ashkenazi? No: potenza e generosità analitica/costruttiva erano le sue armi d’espressione.

L’introspezione preferiva lasciarla sottintesa o anche tralasciarla. Eccelleva nei contemporanei, unico tra le star (altro termine che detestava) a occuparsene con continuità e sincera passione. Il suo picco interpretativo sono state le …sofferte onde serene… di Nono, a lui dedicate e con una parte registrata che rimane fissa con cui devono misurarsi (impresa non da poco) tutti i pianisti che affrontano il testo.

Oggi c’è chi ritiene datata la versione polliniana, ma lui seppe proprio allora (1976) capire lo spirito di sovversione che anche Nono capiva e che circolava nella società. Il suo Klavierstücke n.10 di Stockhausen suonato indossando (come prescritto) i guanti con le dita tagliate era davvero strepitoso, quasi iconoclasta. E Pollini, enorme virtuoso, interprete acuto, il temperamento dell’iconoclasta non ce l’aveva proprio. Con quel brano sembrava di sì.