Se dovessimo paragonare il focolaio italiano di Covid-19 a un terremoto, oggi l’epicentro del sisma sarebbe collocato senza dubbio all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, «una struttura di avanguardia, con 48 posti letto di terapia intensiva». Così almeno la descrivono i medici dell’ospedale che hanno usato il sito della rivista medica più letta al mondo, il New England Journal of Medicine, per un racconto lucido e drammatico della situazione lombarda. In poche ore il loro resoconto ha fatto il giro del mondo.

«Il nostro stesso ospedale è contaminato» scrivono i medici. «La situazione è disperata, lavoriamo ben al di sotto dei nostri standard di cura. Si attendono ore per un posto letto in terapia intensiva. I pazienti più anziani non vengono rianimati e muoiono da soli senza cure palliative appropriate, mentre la famiglia è informata telefonicamente, spesso da un medico volenteroso, esausto e emotivamente distrutto con cui non avevano alcun rapporto».

E negli ospedali della provincia la situazione è anche peggiore. «Gli ospedali sono sovraffollati e prossimi al collasso» scrivono i medici, raccontando di medicazioni, ventilatori polmonari, ossigeno e protezioni individuali che non si trovano più. «I pazienti sono sdraiati su materassi per terra. Il sistema sanitario fatica a svolgere i servizi ordinari – persino l’assistenza per le gravidanze e i parti – mentre i cimiteri sono travolti, con un ulteriore problema di salute pubblica».

Il documento non rappresenta una richiesta di soccorso, ma una lezione utile per tutto il mondo. Secondo i dottori del “Papa Giovanni”, «i sistemi sanitari occidentali sono stati progettati con un approccio alla cura centrata sul paziente ma abbiamo bisogno di cambiare la prospettiva verso una sanità centrata sulla comunità. Stiamo imparando a nostre spese che abbiamo bisogno di esperti in salute pubblica e epidemiologia, ma i decisori politici a livello nazionale, regionale e nei singoli ospedali finora hanno guardato altrove».

In un’epidemia, il rapporto tra malati e dottori può persino invertirsi: «Gli ospedali possono rappresentare il principale vettore del Covid-19, perché si riempiono di pazienti contagiati e facilitano la trasmissione a quelli non infetti. I pazienti sono trasportati dalla rete regionale, che contribuisce a diffondere il virus attraverso le ambulanze e il personale». Oltre ai malati vanno protetti anche i medici: «Alcuni rischiano di morire, anche tra i più giovani, e questo aumenta la pressione su chi si trova in prima linea».

Le soluzioni non riguardano dunque solo gli ospedali, ma l’intera popolazione. «L’assistenza domiciliare evita spostamenti non necessari e allevia il carico degli ospedali» scrivono i medici bergamaschi. «Questo approccio limiterebbe l’ospedalizzazione a una percentuale mirata di pazienti, diminuendo il contagio, proteggendo i pazienti e i sanitari e minimizzando il consumo di dispositivi di protezioni. Negli ospedali, la protezione del personale medico deve avere la massima priorità». Le misure di distanziamento sociale sono fondamentali, ma occorre guardare anche al di là di questa ondata. «Un ulteriore picco si verificherà quando le misure restrittive verranno allentate per alleviare le conseguenze economiche». È uno scenario realistico, per quanto faccia paura. «Serve un piano a lungo termine per la prossima pandemia».

Il primo firmatario del documento è Mirco Nacoti, che con l’Ong Medici Senza Frontiere ha conosciuto in prima persona le epidemie della Costa D’Avorio. Un punto di vista che aiuta a inquadrare anche questa epidemia: «Il coronavirus è l’Ebola dei ricchi e richiede uno sforzo coordinato a livello internazionale. Non è particolarmente letale, ma è molto contagioso. Più la società è medicalizzata e centralizzata, e più il virus si diffonde. La catastrofe che sta accadendo in Lombardia potrebbe riprodursi in ogni parte del mondo».

Il testo è eloquente e non ha bisogno di interviste e di divulgazione per essere compreso fino in fondo. Lo scopo è «aiutare altre regioni e altri paesi del mondo ad evitare la catastrofe umanitaria bergamasca», spiega Nacoti al manifesto. «Il nostro compito è ora difendere la natura scientifica di quella testimonianza».