Silvio Perrella: «La morte come Grande Semplificatrice. Ne abbiamo parlato la settimana scorsa durante il nostro primo dialogo. Ti dico con più precisione cosa intendessi usando questa formula. Levare di torno un avversario significa fare piazza pulita. Nessun processo, nessuna necessità di una rieducazione e dunque di un carcere, nessuna gradualità.

Tutto come uno sparo. Fulminante. Ma così non si tiene conto che la Morte è anche scrittura della Vita. È anzi un potente segno d’interpunzione. L’opera di un artista necessita della Morte per essere davvero compiuta. Ma si tratta di un processo, di una sedimentazione, di un tragitto.

Dare la morte a scoppio è stata in Italia una tragica merce usata soprattutto dalle mafie e dal terrorismo. Entrambi però avevano dei loro codici. E non a caso le loro morti erano “lette”. Quel che sta succedendo oggi è invece un uso della morte che non lascia nessun segno se non la morte in sé. Siamo giunti al consumismo dell’insensatezza. Non credi?»

Sarantis Thanopulos: «Sono d’accordo. In realtà tu parli di due Morti. La prima è la morte come interpunzione della vita: la perdita temporanea o permanente di una relazione che mette in gioco il lutto. Essa riguarda anche l’essere noi perduti per gli altri, restare o non restare presenti nel mondo, al di là della nostra personale esistenza, attraverso i loro sentimenti. Questo è molto importante nell’arte e nella poesia e in ogni rappresentazione complessa, profonda e coinvolgente dell’esperienza. Ne detta il ritmo e il divenire.

La morte come perdita di sé o dell’altro, è la fonte della paura che fa parte del nostro desiderio di vivere e tu descrivi bene in “Io ho paura” (Neri Pozza). Questa paura ci permette di anticipare il lutto, ci insegna il senso di misura e la saggezza. Fa parte dell’amore per la nostra vita e per la vita degli altri.
C’è, invece, un altro tipo di paura che viene dal timore di vivere. Tutto quello che ci dovrebbe far sentire vivi, è avvertito come complicato, destabilizzante, ingestibile. Lo si reprime, semplificando le proprie emozioni trasformate in azioni. La repressione della vita in noi produce un senso di morte che potrebbe essere salvifico (allarmarci), ma può anche drogarci.

Diventare tutt’uno con questa Morte psichica, che nega il lutto, svuotando di senso la nostra esistenza, crea un senso di onnipotenza: il potere di trasformare ogni tipo di vissuto in tensione di cui liberarsene. Uccidere diventa un modo di liberarsi dei propri sentimenti (dell’amore come dell’odio) che il contatto con l’altro può far nascere. La più feroce delle semplificazioni: la eliminazione dei contatti e delle relazioni. Il consumismo lavora in questa direzione: distrugge la relazione con l’oggetto desiderato e lo annienta senza godersene.»

Silvio Perrella: «Uccidere diventa un modo di liberarsi dei propri sentimenti: è questo un punto davvero nevralgico. E proprio per questo, al contrario, coltivare i sentimenti è diventato oggi un atto politico. Lo aveva ben capito Goffredo Parise quando scrisse i “Sillabari” e fu all’epoca – era l’inizio degli anni Settanta trattato come un reazionario. Fu un’occasione persa della nostra cultura e oggi potremmo provare a rimediare.

Aggiungendo che prima dei sentimenti vengono i sensi, la percezione primaria. I sentimenti sono una traduzione di quel che ci ha toccato attraverso i sensi. E oggi, nel nostro oggi che fa scendere anche la morte dal suo trono, il contatto si tende a mimarlo. E’ un contatto virtuale, privo della nervosità conoscitiva necessaria a produrre un sentimento. Ma avremo modo di riparlarne».

Sarantis Thanopulos: «Ne parleremo perché coltivare i sentimenti, il che implica il contatto e i sensi, è davvero un atto politico.»