La figura esile, quasi impacciata, di João Botelho, che nasconde una vitalità estrema, ruggente, proprio come il suo cinema, che maschera, dietro uno stile accuratissimo, un costante flusso tellurico. Gli occhi liquidi di Leonor Silveira, i suoi capelli biondi come fasci di luce che illuminano. Le loro parole, quasi un duetto lirico, un’aria musicale che si trasforma in leggera brezza di memoria, a volte libeccio, per poi tornare sulla terra di un pomeriggio assolato dove l’aria, lo spirito di Manoel de Olivera, diventa palpabile. L’occasione è la prima mondiale locarnese di O Cinema, Manoel de Oliveira e Eu, documentario che Botelho ha dedicato al cinema secolare, in tutti i sensi possibili, del maestro portoghese, tracciando una mappa sentimentale di immagini dove emerge non tanto una scelta arbitraria di frammenti quanto un’inabissamento dentro il cinema errante e polifonico di de Oliveira. Con l’ausilio della voce «senza tempo» di Botelho, che ricorda/legge/insegna in prima persona, il film naufraga dolcemente nelle acque del tempo filmico per poi riaffiorare in un presente impossibile, sdoppiandosi nel fittizio, primordiale bianco e nero di A Rapariga das Luvas, un’antica storia mai filmata da De Oliveira che il regista portoghese ha voluto realizzare come tributo, tramutando il corpo di Leonor, una delle interpreti del cortometraggio, in messaggero temporale e d’amore. Questa conversazione anarchica, veloce e scattante, aperta alla risata e alla malinconia, viaggia sospesa fra le dolci parole di Leonor e l’irruenza di Botelho che scardina ogni possibile scaletta di domande, sovrappone spazi temporali ma soprattutto lacera di tenerezza…
La prima domanda è per entrambi: un ricordo del vostro primissimo incontro con Manoel de Oliveira…
L.S.: Era il 1987 e accompagnai un’amica a fare un provino. Mentre la aspettavo, qualcuno si avvicinò dicendomi se volevo fare uno screen test per il nuovo film di De Oliveira, risposi che non ero lì perché volevo fare l’attrice ma mi lasciai convincere. Mi misero davanti a una telecamera chiedendomi di cantare una canzone qualsiasi, non mi ricordavo niente in particolare e così cominciai a cantare la filastrocca «Tanti auguri a te…». Alla fine mi ringraziarono, tornai a casa e poco dopo mi chiamarono per comunicarmi che De Oliveira voleva rivedermi per parlare del suo film Os canibais.
J.B.: Ecco perché ti hanno fatto cantare, era un musical!
L.S.: Ci siamo incontrarti poco dopo e l’esordio non fu dei migliori. Disse che avevo i capelli troppo corti e che ero strabica. Non sapevo di essere strabica ma ancora non sapevo che la macchina da presa vede tutto, più dell’occhio umano…
J.B.: Da giovane fondai un giornale, «cineMa», e con gli amici della rivista decidemmo di dedicare il primo numero a Manoel. Lo incontrai la prima volta mentre girava Amor de Perdição, ricordo un set incasinatissimo con i tecnici che non lo sopportavano ma non mi stupì perché nessuno all’epoca lo amava in Portogallo. Era visto come un tipo strano, un padre di famiglia, uno misterioso insomma, ma dopo poco tempo fu un vero colpo di fulmine fra di noi. La notte stessa ero nel suo hotel a Lisbona dove conversammo per due ore, prima di interromperci perché doveva vedere le sue soap-opera brasiliane preferite. In qualche modo mi sentiva come un figlio al quale poter insegnare anche perché i suoi «veri» figli avevano intrapreso strade lontanissime dal cinema. Era un uomo generoso, con lui ogni minuto era una lezione di cinema ma sapeva anche essere tremendo.
Come si è sviluppato, nel corso del tempo, il rapporto con Manoel?
L.S.: Avevo 17 anni e ho cominciato a diventare donna sui suoi set. Litigavamo molto ma la maggior parte del tempo ci si capiva al primo sguardo, attraverso i suoi occhi. Non ci vedevamo fuori dal set, non c’era il rapporto che aveva con Joao. Manoel aveva un lato dittatoriale diciamo così e quando preparavamo film insieme era praticamente impossibile che io potessi recitare per altri registi.
J.B.: Infatti quando le chiesi di fare un film con me, un ruolo più consistente rispetto alle partecipazioni nei miei Tres palmeiras e No Dia dos Meus Anos, mi disse di no.
L.S.: …e un giorno, quando João gli fece notare la cosa, perché aveva la confidenza per farlo, Manoel sorrise senza dire una parola. Ci divertivamo sul set solo se lo decideva lui: se sorrideva allora tutti potevamo sorridere ma se notava che io o uno della troupe rideva con qualcuno, si avvicinava dicendo «Cosa ridi? Mi stai disturbando». A parte questo dettaglio, il nostro è stato un rapporto di amore e odio, ho imparato a recitare con lui, a stare davanti alla macchina da presa e parallelamente crescevo come donna. Capitava spesso che noi attori non avessimo la minima idea di dove volesse andare. Avevamo la sceneggiatura, il soggetto, le prove, ma l’unica certezza era che avresti girato la tua scena con la disciplina a cui ti obbligava e la cosa non era affatto semplice. Oggi che non c’è più sento ancora fortissima la sua presenza: ad esempio, mentre giravo A Rapariga das Luvas, fin dalle primissime scene, João mi ha quasi strattonata per posizionarmi bene davanti alla macchina da presa, nello stesso identico modo di Manoel. Ero commossa, Manoel era mancato da poco e avevo ancora negli occhi il nostro ultimo incontro…
Puoi raccontarci qualcosa?
Manoel girava a Porto il suo ultimo corto O Velho do Restelo. Andai a trovarlo e quando arrivai sul set lo vidi davanti a un piccolo schermo mentre guardava gli attori che provavano. Mi chiese «Che ci fai qui?» e per la prima volta in assoluto mi disse «Siediti vicino a me, guarda e dimmi se ti piace». Non mi aveva mai «permesso» prima di allora di assistere accanto a lui alle riprese e poi a fine giornata mi salutò e mi diede un bacio. Tutti sapevamo che era il suo ultimo film e così mi fece un regalo enorme, l’ultimo.
(«Questo cortometraggio, interviene Botelho, è una storia che Oliveira ti raccontò molto tempo fa».
Come è avvenuta questa «confidenza»?
Manoel mi raccontò questa storia e, se non ricordo male, ne parlò anche in un’intervista ai «Cahiers». All’epoca non si soffermò sui dialoghi, sulla situazione, sull’ambientazione storica, mi diede soltanto pochi accenni. Mi disse che per lui fu impossibile girare un film così, non per mancanza di soldi ma per motivi familiari. Non ricordo il momento preciso anche perché, nel corso dei decenni, il nostro rapporto diventò sempre più intimo e assiduo, al punto tale che un giorno mi mostrò la prima versione di Visita ou Memórias e Confissões, il suo film uscito postumo per sua volontà.
Una versione diversa da quella mostrata dopo la sua morte?
Assolutamente sì! Non è lo stesso film che si è visto a Cannes. All’epoca Manoel pensava di essere «finito», era un film più pessimista. Poi arrivò Jack Lang, all’epoca ministro della cultura in Francia, e lo invitò a fare due film: Mon cas e Le Soulier de satin. Era rinato. Nascose a quel punto il film, per pudore, lo modificò ed ora risulta più dolce, quasi ottimista. Nel mio documentario ho inserito la scena della moglie Maria Isabel che taglia i fiori ma la versione che ricordo io era molto più radicale, si concludeva con uno zoom violentissimo sul primo piano di lei e staccava sulla foto del suo volto da ragazza, un momento magnifico…
Tornando a «A Rapariga das Luvas», è un film completamente «tuo», ricco di piani fissi, rigoroso ma potenzialmente esplosivo, lontano da come l’avrebbe girato de Oliveira e che riprende la grammatica e la sintassi del cinema muto…
Volevo rendergli omaggio ritornando all’innocenza del mondo, ai primi vagiti delle invenzioni cinematografiche quando registi come Griffith non pensavano a creare forme artistiche ma semplicemente alla narrazione, il contrario insomma del cinema di oggi. Inoltre sentivo il bisogno di lavorare con Leonor dopo tanti «appuntamenti» mancati…
João, il film nella sua interezza, oltre alla trasparenza dell’atto d’amore, ha una sfumatura didattica, specialmente nella prima parte, nel senso più profondo del termine, è quasi un’introduzione al lavoro di De Oliveira, un manifesto contro l’oblio. Che futuro speri che ci sia per questo tuo ultimo lavoro?
Scuole, scuole, scuole! I ragazzi di oggi pensano che il cinema cominci con Tarantino e guardano un dipinto di Cézanne in due secondi. Non capiscono, non osservano, hanno troppe informazioni ma nessuna concentrazione. Spero di mostrare questo lavoro ma soprattutto di parlare a questa generazione, raccontando tutto quello che Manoel ha insegnato a me: «Filma quello in cui credi», «Per ogni situazione c’è un solo modo di posizionare la macchina da presa, un solo punto di vista», «Se non hai i soldi per filmare una carrozza, filma una ruota ma fallo bene».