Senza soluzione di continuità fra la terra, gli animali e la figura umana, il piede nudo di una donna affonda nel terreno e le formiche ci passano sopra. Non è un’immagine mortuaria, ma al contrario di grande vitalità, espressione di un rapporto che ai nostri occhi appare sempre più misterioso fra l’essere umano e la natura, che è proprio l’idea – quella di un ciclo antico, che sembra immutabile ed eterno – a cui dà forma quasi senza parole Then Comes the Evening di Maja Novakovic. In concorso in questi giorni al Trento Film Festival, il film segue una donna e l’anziana madre che vivono nei monti della Bosnia, filmate nel rito quotidiano delle loro esistenze legate al lavoro della terra, la cura degli animali – pecore, capre – e quella reciproca che si esprime senza bisogno di parlare, proprio nel ripetersi affettuoso dei gesti di ogni giorno: la figlia pettina la mamma, le sistema il fazzoletto sul capo, le serve la cena.

SOLE E AUTOSUFFICIENTI nel loro «regno» al di là della modernità, madre e figlia vengono riprese raramente in volto: Novakovic si concentra sui piedi che sprofondano della terra, sulle loro mani sempre al lavoro, sulla natura circostante che può essere benigna o distruggere il raccolto. Un ciclo infinito e un rapporto quasi «magico» con gli elementi la cui interruzione viene invece raccontata da un altro film in concorso a Trento: North di Leslie Lagier, ambientato nello Yukon, la regione canadese dove nell’Ottocento si è riversata la frenesia dell’«uomo bianco» e della sua febbre dell’oro. Al centro di North c’è però un saccheggio più recente, quello che parte nel 1969 con l’apertura della miniera di Faro, una delle più grandi fonti di zinco e piombo al mondo, poi chiusa vent’anni dopo nel 1989. Lagier contempla il paesaggio sconfinato dello Yukon, da cui emergono fuoricampo le voci dei suoi «protagonisti», che non vedremo mai in volto. Il paesaggio su cui echeggiano i loro racconti è come una tela su cui si inscrivono anche storie non dette, ma che fanno parte dell’immaginario di ogni spettatore – a partire dal western che ha scritto l’epopea di una sfida alla wilderness che aveva in sé anche lo sterminio dei nativi, la distruzione della natura, la «rapacità» del mondo occidentale che si è sovrapposta all’addomesticamento della natura incontaminata.

PRIMA parlano gli ex minatori di Faro, raccontano il brivido di sventrare la montagna, di dominarla, e la scelta contraddittoria di restare in quel mondo selvaggio – ormai irrinunciabile – anche dopo la chiusura della miniera. Poi la parola passa ai nativi, ai sopravvissuti delle First Nations, le Prime nazioni ad aver abitato il Canada prima dell’arrivo del dominio coloniale. «Mi sento uno straniero sulla mia stessa terra» spiega uno di loro: con o senza miniera il colonialismo non è mai finito, ai nativi sono stati fatti firmare i «land claims», con cui il governo li ha spogliati delle loro terre in cambio di pochi soldi. Oggi per pescare, cacciare e fare tutto ciò su cui da secoli si è retta la loro esistenza devono affrontare una burocrazia kafkiana per avere i permessi, mentre il loro paese – non più loro – è ormai irrimediabilmente contaminato: l’acqua del fiume intorno alla ex miniera è gialla e bagna una terra arida, senza più animali.
Un effetto mortifero che arriva ben oltre lo Yukon: «Ogni pezzo di piombo e zinco tirato fuori da queste miniera – osserva un’attivista – in questo momento sta probabilmente marcendo in una discarica da qualche parte nel mondo». Un altro ciclo, stavolta vizioso, dettato dai consumi esponenziali e dalla deperibilità di «beni» il cui unico effetto a lungo termine è inquinare il pianeta.

INEVITABILMENTE, i film del Festival dedicato alla montagna parlano sempre più di questo rapporto reciso con la natura e della minaccia che grava sull’ambiente, un pericolo che da piccole comunità di persone si estende a tutto il genere umano. Come nel caso del villaggio della Georgia -protagonista quest’anno della sezione Destinazione… – in cui è ambientato A Tunnel di Nino Orjonikidze e Vano Arsenishvili, e che verrà attraversato dalla ferrovia della nuova Via della Seta.

LA MONTAGNA, sventrata dal tunnel del titolo, comincia a franare in più punti: gli abitanti del villaggio hanno paura per le loro terre, i pascoli e soprattutto per le loro case. Da quando sono cominciati i lavori infatti ancora non si sa chi dovrà vedere demolita la propria abitazione, mentre il villaggio è percorso dalle tensioni con i padroni cinesi che gestiscono i lavori del tunnel e della ferrovia. Le autorità locali promettono l’abbondanza con l’arrivo, in quella remota montagna, del futuro sotto forma di un’opera ingegneristica, di una nuova rotta del commercio destinata a cambiare il mondo intero. Ma gli abitanti sono scettici, la montagna continua a franare e flora e fauna a venire distrutte, nelle lunghe assemblee dove vengono prospettati lauti compensi in molti suggeriscono di usare parte dei soldi per sistemare il cimitero: «Per il momento non ho alcuna intenzione di morire», si oppone scherzando una signora. Ma è come se A Tunnel desse forma all’elegia di un mondo al tramonto, congelando nel tempo l’immagine di questo piccolo centro rurale su quel confine temporale fra il passato e un futuro ignoto. Il racconto di un mondo nel momento esatto in cui si prepara a diventare altro da sé.