«L’ironia è l’esercizio d’una continua sorveglianza sopra i rapporti tra cosa e cosa, tra parte e parte della cosa stessa, tra le cause e gli effetti: freno contro ogni possibile sproporzione o sbandamento: atto di giudizio, insomma, cioè di pensiero, ma esercitato con un movimento d’immagini, fatto arte (…). L’allontanamento dal realistico riesce compiuto. Ma insieme l’esecuzione dell’oggetto è realisticamente precisa, in modo che i limiti ne risultino esatti e inconfondibili: non però immobili e quasi cristallizzati o morti; ma se ne irradia una vibrazione particolare, nella quale il tutto sembra magicamente scostarsi, ed esser veduto con occhio più lontano e più limpido». Massimo Bontempelli pone al centro della riflessione un territorio in cui i colpi della fantasia – di un procedimento inconscio che mira a costruire una sorta di pulsione estetica incontrollata o, diversamente, sorvegliata con cura – si pongono come un momento specifico della creatività umana. Di un criterio linguistico che, attraverso il puro e pungente gioco dell’intenzione o il piquiponismo (sinonimo di espressione maldestra che deriva dal politico spagnolo Joan Pich i Pon), mette sotto scacco il già noto per dar luogo a cortocircuiti, a forme e formule insolite, anomale e inconsuete che, a detta di Alberto Savinio, ampliano le capacità interpretative dell’individuo.

L’imperfezione del lapsus

Screpolando la vernice della realtà l’artista propone, mediante l’umorismo, fantasie d’avvicinamento a mondi paralleli e irraggiungibili conquistati, questi, attraverso il ponte delle associazioni libere e, sotto alcuni aspetti, dell’automatismo psichico. Un metodo d’indagine che piega e trasforma – grazie ai mezzi di cui si serve il lavoro onirico per trasfigurare le fondamenta ideative e intime del sogno – i lacerti quotidiani in elaborazioni formali che difendono il nonsense (G. C. Chesterton) e creano vivaci equilibri tra forme e tendenze in contrasto tra loro.
Condensazione, spostamento e trasformazione espressiva del pensiero in immagini visive e simboliche (i luoghi freudiani del sogno, appunto), sono la pista trinitaria battuta da alcuni brani dell’inventiva per generare un pazientissimo lavoro di scavo che consente all’artista di incrinare le barriere del proibizionismo o della censura e operare verso il recupero del desiderio mediante un cifrario di rimandi continui a situazioni e a paradossi reali, a piccole imperfezioni, a lapsus e a Witz (Freud), a dettagli che non solo richiamano alla memoria il primus movens della creazione artistica ma evidenziano anche un atteggiamento linguistico svincolato da preconcetti grammaticali e da costruzioni tradizionali.
Addensati in forme che saltano il fosso dell’evidente per calibrare lo sguardo del fruitore lungo le piste maestre dell’immaginazione, l’artista utilizza generosi engrammi mnestici (Richard Semon) estesi alla materia culturale mediante escamotages visivi che danno alla luce un sostituto abbreviato e deformato della realtà.
Legato fortemente allo scandalo – a quello che Marcel Duchamp ha definito essere succès de scandale – lo spazio dell’umorismo è, così, parte integrante di procedimenti artistici che trovano nell’arguzia, nell’ironia e nella comicità alcuni nuclei estetici e alcuni stratagemmi utili a trasformare l’ordinario in straordinario, la consuetudine in ostranenie. L’air de Paris (1919) di Duchamp (un dono per Louise e Walter Arensberg), le novanta scatolette di Merda d’artista prodotte da Piero Manzoni nel 1961, la Mozzarella in carrozza (1970) di Gino De Dominicis e L.O.V.E. (2010) di Maurizio Cattelan, sono esempi brillanti di un procedimento che, se da una parte smonta con astuzia alcuni linguaggi della vita quotidiana, dall’altra crea una genealogia del giudizio (si pensi alle meravigliose frecciatine di Daumier o, a ritroso nel tempo, alle caricature di Leonardo, alla vetrata di Limoges, sec. XIV, dove una volpe predica alle galline, alle cariatidi burlesche di epoca medioevale custodite nel Castello di Bois, sec. XIII, alla figura del grillo, ricorrente nelle satire d’epoca romana, alle scenette comiche di età ellenistica o al Concerto degli animali dipinto nel IV millennio a.C. su un papiro e conservato, oggi, al Museo Egizio di Torino), un’intenzione di piacere che viene poi identificata con l’attività verbale o concettuale pura.
L’umorismo e il motto di spirito, «un briccone che ci fa sbarazzare della censura» (Franco Fornari), sono, ora, centro nucleare del MIUMOR – Museo Internazionale dell’Umorismo nell’Arte (a Tolentino, in provincia di Macerata). Di una istituzione che, assieme a poche altre nel suo genere (il Museo della Satira e della Caricatura di Forte dei Marmi, il Museum für Komische Kunst di Frankfurt am Main, il Museo de la Caricatura di Mexico City e il Cartoonmuseum Basel) pone il riso al di là dell’emozione personale – «il più grande nemico del riso è l’emozione» afferma Bergson in un libro, Le rire. Essai sur la signification du comique, del 1900 –, in un circuito che rafforza il gruppo sociale e produce un arresto, «una interruzione dell’empatia nei confronti di coloro di cui si ride».

Da Daumier a Mordillo

Fondato nel 1970 dal medico, pittore e caricaturista tolentinate Luigi Mari (1907-1974), fondatore tra l’altro, nel 1961, della Biennale Internazionale dell’Umorismo nell’Arte (giunta, oggi, alla sua 27a edizione con un programma che, grazie alla direzione artistica di Evio Hermas Ercoli, si apre a tutte le forme di creatività umana), il museo è «universalmente riconosciuto come un fondamentale riferimento per tutti gli artisti, gli studiosi, e gli appassionati della cultura umoristica». Di uno spazio in cui l’homo sapiens si fa homo ridens per sprigionare un alto grado di creatività e trasformare l’umorismo, l’ironia, la satira, in un gioco della verità.
Dopo una prima sede inaugurale (6 settembre 1970) nel nobile Palazzo Parisani-Bezzi, dove nel 1797 fu firmato lo storico trattato di pace tra Napoleone Bonaparte e la Santa Sede, dall’11 settembre 1993 il museo viene spostato in una nuova (attuale) sede, il monumentale Palazzo Sangallo (dal nome del progettista, Antonio da Sangallo il Giovane), per offrire al pubblico il più ampio e completo panorama dell’arte umoristica mondiale.
Accanto ad una cospicua quantità di giornali, libri, cataloghi e documenti storici di varia natura (conservati in una sala che ospita anche una fornitissima biblioteca), il Museo espone, nelle sue sale, oltre cinquemila opere (incisioni, disegni, pitture, sculture e stampe d’epoca) dei più illustri e brillanti artisti dell’umorismo internazionale.
Tra questi sfilano i nomi di Honoré Daumier, Caran d’Ache, Olaf Leonhard Gulbransson, Galantara e, via via, quelli di Scarpelli, Dudovich, Tirelli, Pannaggi, Mino Maccari, Attalo, Sempè, Nino Za, Longanesi, Searle, Levine, Jacovitti, Mordillo, Sciammarella, Kosobukin, Zlatkowskj, Federico Fellini, Forattini, Altan.
Impaginato in cinque sale, ognuna a tema – l’umorismo nella storia (con opere che vanno dalla fine dell’Ottocento e arrivano, cronologicamente, fino ai nostri giorni), una sala dedicata ai fondatori del museo (con opere di Luigi Mari, Cesare Marcorelli, Mino Maccari, Galantara e Sacchetti), una alle feroci caricature di Umberto Tirelli e ad una serie di giornali satirici (Il Selvaggio fondato da Maccari nel 1924 e chiuso dalla censura nel 1943 ne è un esempio brillante), un ambiente dedicato alla caricatura e uno spazio in progress alle varie opere vincitrici delle Biennali dal 1961 ad oggi – il MIUMOR propone allo spettatore un viaggio entusiasmante tra le maglie e le magie di una creatività sui generis, ma anche un prezioso (memorabile) patrimonio artistico e storico della civiltà.