«Vede, io ho tantissimi amici. Ho qualche amico vecchio, che mi porto dietro dal passato; e ho molti amici nuovi, che hanno stima di me. Con tutti loro parlo di tantissime cose, le più diverse tra lor».. (Dell’Utri, Corriere della Sera 15 Novembre).
In un romanzo di Sciascia dell’ormai lontanissimo 1961 il capitano dei carabinieri Bellodi chiede al boss mafioso don Mariano Arena a chi desse i suoi consigli e facesse le sue raccomandazioni: «Agli amici che possono fare qualcosa. Ma di solito a chi? A chi mi è più amico; e a chi può fare di più. E non ricava qualche vantaggio, qualche profitto, qualche segno di riconoscenza? Ne ricavo amicizia».
Un intarsio di frasi e parole, un insieme armonico che stringe in comune abbraccio i contesti di due lontani periodi. Una lunga, e strutturale continuità.

Nella sentenza della Cassazione (2012), che condanna Dell’Utri a 7 anni per concorso esterno con associazione mafiosa, si legge: «Il ruolo di Marcello Dell’Utri si è rivelato (…) come quello (…) di mediazione e di collegamento tra la associazione mafiosa nella persona di Stefano Bontade e Silvio Berlusconi».

Non sappiamo con certezza se tra i «nuovi amici» con cui il nostro parla di «tantissime cose» vi sia anche Matteo Renzi, ma certo c’è il «vecchio» amico Salvatore Cuffaro, anch’egli condannato a 7 anni per favoreggiamento aggravato alla mafia. L’impegno di Cuffaro in favore di Faraone, candidato da Renzi a sindaco di Palermo, ci dà qualche indicazione sulla ramificazione della rete di «amicizie» vecchie e nuove del braccio destro (il sinistro, o viceversa, era Previti) dell’avventura politico-affaristica di Berlusconi. La lunga continuità di questa «avventura», dagli inizi degli anni Novanta fino ad oggi è l’indicatore principale di quella che Bevilacqua ha definito la vera «catastrofe culturale e spirituale» (il manifesto, 19 novembre) in cui versa il nostro paese.

Se pensiamo che 314 deputati hanno votato che Ruby Rubacuori la notte del 27 maggio 2010 era per lo Stato italiano la nipote di Mubarak e che le sette telefonate di Berlusconi in Questura a Milano per farla rilasciare erano telefonate di premier, telefonate di Stato, non possiamo non sentirci agghiacciati. Ed ancor più agghiacciante il fatto che la stessa coalizione che ha prodotto i 314 si ripresenti compatta per sostenere la candidatura di Berlusconi al Quirinale. Inoltre la quasi totalità di coloro che allora si erano opposti non avverte il segno catastrofico per la politica proveniente da una prassi parlamentare che ripete in continuazione la logica da cui il voto del 2010 è scaturito. Al massimo tra costoro si trovano alcuni che s’indignano facendo riferimento al deterioramento ormai avvenuto del senso etico nel ceto politico.

L’etica pubblica, però, è altra cosa. Come avvertiva Piero Gobetti già agli inizi degli anni Venti del XX secolo, «i lamenti sulle degenerazioni morali non intendono che fuori della lotta politica manca il criterio del rinnovamento etico». Se la «lotta politica» non concerne il nodo centrale relativo ai modi in cui si strutturano le faglie della società in seguito al mutamente dei processi di accumulazione, allora la sfera politica diventa la sfera del mercato politico, le azioni politiche diventano oggetto di scambio. E dunque, per citare ancora la convinzione di un personaggio di Sciascia, non vale la pena «arrovellarsi con la politica» a meno che uno non ci «trovi il suo interesse» (A ciascuno il suo).

La sinistra dell’antitesi, prima di essere sostituita dalla sinistra per simmetria, è stata il più valido argine nei confronti del carsico «riemergere delle incarnazioni perenni del tipo italiano dell’analisi leopardiana» (Bevilacqua cit.), cioè la saldatura tra i plebeismi cinici dei dominanti e dei dominati. Lo è stata proprio perché antitesi allo «stato di cose presente». Che ci fossero spesso problemi di coerente coniugazione è del tutto ovvio, ma comportava che nell’ «arrovellarsi con la politica» non vi fosse posto gli affari.

Il piagnucolio sulla politica come continuazione degli affari con altri mezzi è del tutto inutile, se non se ne colgono le radici. Se non si ritiene che il compito prioritario della sinistra sia la ricostruzione di un’organizzazione politica nuova che, in un contesto ormai del tutto diverso, recuperi il vecchio senso profondo dell’etica pubblica. Un compito che ci ripropone il faticoso percorso di Sisifo. Pochi oggi sembrano averne voglia, ma bisogna considerare che «anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice» (Camus, 1942).