Tutto si può dire della Reale accademia delle scienze di Svezia e dei criteri con cui ogni anno sceglie gli scienziati a cui attribuire gli ambiti premi Nobel. Di certo, tuttavia, essa non è stata contagiata dalla diffusa ossessione dell’immateriale e continua, per così dire, a mostrare una vera e propria passione per l’hardware.
Ieri, non a caso, il riconoscimento per la fisica è andato a tre ricercatori giapponesi – Isamu Akasaki, Hiroshi Amano e Shuji Nakamura, quest’ultimo cittadino statunitense – «per l’invenzione di efficienti diodi capaci di emettere luce blu, che ha permesso la realizzazione di brillanti sorgenti luminose a basso consumo energetico». Il riferimento è ai cosiddetti Led (Light Emitting Diods), quelli che compongono gli schermi di televisioni e computer e soprattutto sempre più diffusamente sono utilizzati per l’illuminazione. È senza dubbio questa l’applicazione più importante: il loro rendimento è in media venti volte superiore a quello di qualunque lampadina e la produzione di luce costituisce almeno un terzo dei consumi di corrente elettrica.
E così, se nel 2013 la corona di alloro era stata posta sulle teste dei teorici F. Englert e P.W. Higgs, quest’anno gli accademici hanno deciso di premiare una «invenzione» o, più precisamente, il perfezionamento di una invenzione.
Il diodo, infatti, è un componente elettronico che permette il passaggio della corrente in una sola direzione e per questa ragione è da lungo tempo utilizzato per trasformare corrente alternata in corrente continua. Ideato nel lontano 1904 dal britannico John A. Fleming, ancora negli anni ’50 e ’60 sembrava una piccola lampadina. A quei tempi in realtà era già stato sostituito dal simile transistor, creato nel 1947 dai Nobel W. Brattain, J. Bardeen e W. Schokley. Con lo sviluppo della produzione di materiali semiconduttori diventerà sempre più piccolo, quasi invisibile, aprendo la strada alla miniaturizzazione dei circuiti elettronici. Già allora, per di più, la capacità del diodo-transistor di produrre radiazione luminosa era ben nota e molto studiata.
Ma come funziona un transistor? E come può emettere luce? Essenzialmente si tratta porre a contatto due sottili strati di materiali opportunamente trattati, che posti in queste condizioni generano una differenza di potenziale. Si tratta di una sorta di gradino energetico che gli elettroni (le particelle cariche il cui movimento collettivo costituisce la corrente elettrica) riescono a discendere ma non a salire, ovvero ad attraversare in una sola direzione. Nel compiere questo salto, perdono una certa quantità di energia e dunque (nulla si crea e nulla si distrugge!) possono emettere radiazione luminosa. Maggiore è l’energia persa dagli elettroni, più alta è la frequenza della luce emessa o equivalentemente minore è la sua lunghezza d’onda. In altri termini, se il gradino è basso l’emissione avviene nell’infrarosso, se è alto nell’ultravioletto (luce blu).
La difficoltà è tutta nella produzione dei «materiali opportunamente trattati» e cioè dei cosiddetti semiconduttori, le cui particolari proprietà elettriche vengono ottimizzate tramite una procedura detta drogaggio. In pratica si tratta di produrre cristalli leggermente modificati dall’inserimento di elementi estranei, ovvero di controllare la produzione dei due strati quasi atomo per atomo! Proprio qui si nascondono le principali difficoltà affrontate dai ricercatori giapponesi. Per la produzione di luce blu sono infatti necessarie grandi differenze di potenziale, non producibili con materiali tradizionali.
Come si vede, la natura del loro contributo appare essenzialmente tecnica, il compimento uno sforzo di ricerca più che cinquantennale. E la scelta dell’Accademia sembra confermare quanto sia oggi improprio considerare scienza e tecnologia come mondi separati. Nel bene di una fruttuosa interazione e nel male della sempre più preponderante influenza dei capitali privati. Grandi capitali, va da sé. Perché sugli accessibili scaffali del moderno «supermarket della scienza» si trovano in realtà solo surrogati destinati al consumo di massa, mentre le grandi scoperte o invenzioni, quelle dalle quali si ricavano prodotti buoni per qualche decennio, si fanno in pochi luoghi sempre più inaccessibili a ogni controllo democratico.