In suo onore è stata costruita una città nel deserto con i soldi, dicono gli informati, della mafia italo-americana. Dall’alba della modernità è stato usato per riempire le casse degli Stati nazionali in tempi di magra o evasione fiscale galoppante. È uno dei settori che vedono investire i privati centinaia di milioni di dollari (o euro) in ricerca e sviluppo per adattare innovazioni destinate ad altri industrie produttive nel gioco d’azzardo, mentre c’è una schiera di architetti e designer che lavorano a plasmare ambienti e locali per rendere piacevole le ore trascorse a scommettere o spingere pulsanti davanti a una sfavillante macchinetta mangiasoldi. Sono questi gli elementi sulla contemporanea industria del gioco d’azzardo che emergono dal saggio di Natasha Dow Schüll Architetture dell’azzardo (Luca Sossella editore, pp. 363, euro 18), curato da Marco Dotti e Marcello Esposito.

L’autrice ha svolto un pluriennale lavoro d’inchiesta, intervistando giocatori, croupier, architetti, gestori di casinò e programmatori di computer tra Las Vegas e altri poli metropolitani statunitensi. Ne emerge un affresco storico sul gioco d’azzardo negli Stati Uniti, ma anche uno spaccato su una industria che non ha mai conosciuto crisi dagli anni Cinquanta. E, soprattutto, è una rassegna dei motivi, delle patologie, della soggettività di chi è un usuale giocatore d’azzardo: analizza comportamenti che psicologi, psicoanalisti e neuropsichiatri qualificano una vera e propria patologia psichica che andrebbe affrontata come una tossicodipendenza.

Presenze abituali

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Al di là dei toni allarmistici presenti in dichiarazioni di poliziotti o psicologi riportate nel volume, l’autrice mantiene però fermo un punto di vista: nessuna politica proibizionista aiuterebbe ad affrontare un problema ormai sociale (sono milioni gli uomini e le donne stigmatizzate come «dipendenti dal gioco d’azzardo»). Servono altri strumenti e soprattutto una comprensione dei meccanismi, dei dispositivi culturali e «architettonici» che alimentano tale dipendenza.

Il volume, annota con modestia Natasha Dow Schüll, è stato scritto proprio per facilitare questa opera di comprensione di una realtà che, inizialmente messa ai margini della vita sociale – fino agli anni Ottanta si giocava d’azzardo in locali appositi o in case private –, ormai occupa stabilmente, con le slot machine, la scena urbana al pari dei supermercati, delle pompe di benzina, dei coffee shop, delle birrerie. Perché sono questi i luoghi, oltre i casinò, dove le slot machine sono presenti.

Una presenza legale e sempre più pervasiva, anche se le leggi, negli Stati Uniti, provano a regolamentare le distanze che devono avere dalle scuole, dalle chiese, dagli ospedali e a vietarne l’uso per i minorenni. Negli Stati Uniti, ovviamente il gioco d’azzardo viene tassato, ma vige l’implicita logica in base alla quale più il gioco d’azzardo si diffonde, più le entrate aumentano. Da qui una legislazione «permissiva».

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Nelle pagine di questo giornale, Marco Dotti ha più volte scritto della relazione «strutturale» tra gioco d’azzardo e fiscalità generale, documentando come la Francia lo abbia usato, nel XIX secolo, per guerre di conquista e grandi opere urbanistiche; oppure di come le tasse sull’azzardo sia ormai una voce stabile, e in crescita, in tutti i bilanci statali. Ovviamente il gioco d’azzardo – ma dentro questa voce vanno inseriti lotterie nazionali, le molteplici sale del Bingo, e i proliferanti «gratta e vinci» – ha un pubblico anch’esso in aumento. Architetture dell’azzardo invita però alla cautela, quando si tratta di stabilire se è composto solo da poveri. Questo vale per le lotterie nazionali e per i «gratta e vinci», meno qualificato in termini di classe è invece il pubblico delle slot machine. Anzi, è un «utente» interclassista, che vede lavoratori, disoccupati, commercianti, manager e professionisti: tutti quanti ipnotizzati dalle luci sfavillanti delle slot machine e tutti propensi a spendere cifre ingenti – proporzionate ovviamente ai salari e ai redditi percepiti – per spingere pulsanti. Qui la prima sorpresa.

La motivazione principale non è vincere molti soldi, ma la sospensione del tempo sociale, una via di fuga da una vita quotidiana percepita come vuota, noiosa, degradante delle proprie capacità. Per questo viene cercato un rapporto «intimo», «fusionale» con la macchina, teso a costruire uno spazio protetto dalla normalità, dove viene cancellato il trascorrere del tempo (molti degli intervistati dichiarano la sorpresa delle ore trascorse a giocare con le slot machine) per lasciare spazio a un fluire del tempo dove pensieri, stati d’animo vengono cancellati. Il gioco d’azzardo, in questo caso, è un surrogato del tempo vuoto, di un nirvana che non solo annulla la realtà, ma anche il proprio corpo. Tutto è ricondotto a pochi gesti e susseguirsi di combinazioni di figure dove la vincita volatilizza la «bolla» che viene creata. Una fenomenologia di uno stato d’anima che ha forti echi con le tossicodipendenze. Ma tutti gli intervistati narrano del senso di appagamento, di pienezza, di felicità che hanno provato.

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Di questo spazio alienato «temporaneamente autonomo» i maggiori interpreti sono gli architetti che progettano fin nei mini particolari – le luci, l’arredamento, la disposizione delle slot machine – affinché la fusionalità tra umano e macchina è facilitata. Dunque attenzione alle luci (soffuse nella sale, più accentuate nello spazio occupato dalle slot machine), ai corridoi che delimitano la schiera delle «macchinette» e i percorsi per andare al banco del bar (o al bagno), mentre per il pagamento ormai è possibile usare bancomat e carte di credito, con la conseguente tracciabilità del profilo dell’utente. Tutto è finalizzato a rendere confortevole l’esperienza del gioco, compresa l’ergonomia delle sedie e dei pulsanti da premere, evitando così dolori alla cervicale, alla schiena e una «precoce» stanchezza.

Investimenti ingenti

La terza sorpresa viene dall’analisi del perché le vincite sono rare. Il motivo è semplice: gli algoritmi alla base del software installati sulle slot machine sono avari di elargizioni per il giocatore. Sono stati spesi, nel corso degli anni, decine, centinaia di milioni di dollari affinché il meccanismo sia reso «perfetto» per i proprietari e gli affittuari delle «macchinette».

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Lo shumpeteriano puro può obiettare che l’innovazione è di secondo tipo, cioè tende al miglioramento del già noto, senza nessuna ricombinazione originale degli elementi noti. Ma è questa la tendenza dominante nei due settori che non conoscono crisi e che puntano all’innovazione di processo. Il gioco d’azzardo e l’industria del porno on line investono infatti da sempre in ricerca e sviluppo: per fidelizzare il consumatore-utente e per elaborare accurati profili individuali per promuovere soluzioni facili nel pagamento.
Non ci sono molti dubbi sul fatto che lo sviluppo industriale del gioco d’azzardo, e del porno, abbia molto a che fare con il regime neoliberale di accumulazione capitalistica. Entrambi promettono felicità e possibilità di esperire desideri senza costruzioni. Entrambi costruiscono gabbie e prigioni cognitive che hanno la scritta all’ingresso: la felicità rende liberi.