Che rapporto c’è tra la dimensione perimetrata dai principi costituzionali e quella corporea e vitale della politica? Esiste la possibilità di decostruire le logiche di sopraffazione nello spazio astratto e isomorfo del diritto? Ma soprattutto, può il verticalismo istituzionale rappresentare un argine allo strapotere contemporaneo del mercato? A giudicare dalle voci che, in condizioni di scarsissima agibilità politica, hanno tradotto lo studio sobrio e severo sulla nostra Costituzione in posizioni e atti sempre chiaramente indirizzati sui temi fondamentali e dirimenti (come nel caso della potente narrazione dei diritti dentro i dispositivi del potere restituitaci da Rodotà) pare di sì. È su questo terreno che si misura il volume di Roberta Calvano, Scuola e Costituzione, tra autonomie e mercato (Ediesse, pp. 192, euro 15), contributo prezioso per la densità problematica della domanda posta all’oggetto di analisi.

L’AUTRICE, giurista attiva nei movimenti anti-Gelmini del 2010, sottrae il tema degli interventi legislativi sul sistema dell’istruzione all’ambito specialistico (neutro e neutrale) della disputa accademica e lo fa diventare strumento privilegiato di critica del presente: così quando fornì notevoli coordinate interpretative della pessima riforma Gelmini, ugualmente in questo contributo, in cui scandaglia, a partire da acuminate riflessioni sul nesso istruzione-cittadinanza, la distanza abissale che si è accresciuta fra Costituzione, politica e società.
Il volume squaderna un’agile ma rigorosa disamina del contesto ordinamentale del sistema scolastico e verifica criticamente, in rapporto al disegno costituzionale, l’effettività del diritto all’istruzione. Dal momento della scrittura degli articoli 33 e 34 della Costituzione, l’ascia modernizzatrice di interventi normativi frammentati e settoriali si è abbattuta sulla formazione pubblica trasformando scuole e università da territori di costruzione di cittadinanza a luoghi di indottrinamento di competenze per consumatori o produttori economici. La linea di tendenza normativa individuata con solida dottrina giuridica da Calvano è chiarissima: attraverso il decentramento e l’applicazione di strumenti giuridici privatistici in relazione allo status degli istituti scolastici e degli insegnanti, si persegue la destrutturazione della scuola di Stato di tipo burocratico ministeriale, introducendo il nucleo bifronte e avvelenato che il concetto di autonomia reca in sé come autogoverno delle comunità scolastiche e, insieme, tentativo di colmare il divario tra istruzione e mercato del lavoro, secondo il più avanzato paradigma neoliberista dei primi anni Novanta.

E HA RAGIONE Calvano a individuare proprio nell’autonomia il punto di non ritorno nella crisi del sistema dell’istruzione nel nostro Paese. È una posizione rara, e non compiacente, anche nell’orizzonte della sinistra: l’acritica adesione al mantra dell’apertura al territorio ha impedito di vedere come l’autonomia sia stata la messa a valore, da parte del pensiero neoliberista, proprio di quell’attitudine orizzontale nata in seno alla riflessione sulla scuola negli anni Settanta. L’autrice rileva piuttosto che il carattere rappresentativo della collettività generale nella scuola disegnata nella Costituzione è salvaguardato laddove gli articoli 33 e 34 attribuiscono non allo Stato, ma alla Repubblica il compito di individuare le norme generali sull’istruzione: è questo il modo per «sottrarre la normazione sulla materia all’esecutivo», valorizzando la sede del dibattito parlamentare e della rappresentanza politica nel nostro Paese.
Pagine dense vengono dedicate alla Buona scuola e all’obbligo di alternanza scuola-lavoro (clamorosa smentita del disegno costituzionale, in cui la materia dell’istruzione è limpidamente distinta dalla formazione professionale) e, attraverso l’originale lettura del processo riformatore all’interno della stratificazione tra vecchio e nuovo populismo sovranista, fa presagire, con cognizione giuridica, le irreversibili conseguenze della prospettiva dell’autonomia differenziata.
Calvano prova a mettere insieme i pensieri, soprattutto quelli che vogliono essere lunghi. La scelta dell’astrazione giuridica evita di ipostatizzare il soggetto dentro la sua condizione, lo cava fuori dai vincoli della propria esistenza per proiettarlo nel processo emancipativo di autodeterminazione. Costruire ricerca, critica, conoscenza passa anche da qui. Nella prospettiva di una nuova stagione della politica tutta da inventare ma ancora e di nuovo possibile.