Dopo quarant’anni di onorata e ostinata opera di decostruzione e liofilizzazione della parola altrui, valsa a farne il più famoso scrittore russo vivente, Vladimir Sorokin è arrivato alla sfida più estrema nel campionario della bibliofollia: i libri sono semplicemente carta da bruciare, e la magia della parola solo un vago riflesso trasmesso alle pietanze grazie a loro grigliate. Quello di Manaraga La montagna dei libri (traduzione di Denise Silvestri, Bompiani, pp. 224, euro 17,00 ) è l’universo distopico di un nuovo medioevo che reca ovunque le cicatrici di una tremenda guerra globale e, pur nel persistere di prodigiosi progressi tecnologici, è guidato da appetiti brutali e elementari: ecco allora un’accolita di spregiudicati e romantici cuochi-spadaccini che, sfruttando la nostalgia degli ormai introvabili libri cartacei, va predandoli per biblioteche e raccolte antiquarie e in clandestinità, a prezzi esorbitanti e rischio della vita, li usa – sempre e solo se autentiche prime edizioni – come ciocchi per la dilagante moda globale del book’n’grill. Un’affumicata osmosi diffonde l’unico talento residuale: girare le pagine con vorticosa destrezza a mezzo di spadini-spiedini, detti excalibur, affinché il rogo sia lento, omogeneo, integrale.

Dissezionare generi in punta di penna è, del resto, una costante della narrativa di Sorokin, che neppure qui si smentisce: dominano le atmosfere rarefatte e la livida sobrietà del noir, la postapocalissi e la storia alternativa sono in molto dissimulate e filtrate attraverso il prisma del protagonista: un cuoco di nome Géza, ponderato, meditativo, a suo modo elegante e brillante. Il tutto a ritmi tesi e serrati, da spy-story.
Intertestuale dalla prima all’ultima riga, eppure dotata di inconfondibile e spiccata personalità, la produzione di Sorokin può essere inquadrata in due grandi fasi. All’epoca della letteratura underground e della perestrojka lo scrittore russo aveva fatto oggetto di mimesi il realismo socialista e gli assurdi rituali della quotidianità, attivati in perfetti congegni narrativi e poi fatti esplodere tra diluvi di sangue e granghignolesca féerie. Di questo periodo in italiano si può leggere in sostanza solo il testo dialogico La coda. Poi, già prima dell’avvento del putinismo, Sorokin ha iniziato a costruire un personale universo distopico, che si rincorre e completa di libro in libro, dove alla Russia soggetta a una nuovo autocrazia sincretica, ispirata alla propaganda sovietica ma anche a realia dell’epoca di Ivan il Terribile, saldamente inserita nell’orbita politico-tecnologica cinese (nella trilogia – tradotta per intero in italiano – Una giornata di un opricnik, Cremlino di zucchero e La tempesta), subentra un’intera Europa travolta da rivoluzione islamica e neofeudalesimo (principalmente in Telluria, di grande successo in Russia, ma non tradotto, e Manaraga).

Come ogni libro di Sorokin, che spesso trova la dimensione esemplare nel racconto, anche Manaraga sciorina episodi su episodi a rifrazione del motivo ispiratore, sapientemente variati e in potenza in sé conclusi. Al centro però, come già in copertina, c’è la magnifica montagna dalle sette cime del nord degli Urali, che si rivelerà, naturalmente, piena di libri, e graverà sul testo, affascinante e minacciosa (nella lingua dei nenci Manaraga significa «zampa di orso»), fino a ospitarne l’epilogo.
Al di là del nome ugrofinnico, questa possente mole quasi dolomitica è del tutto estranea all’immaginario condiviso dei russi, come del resto le montagne tutte: sommerso di classici carbonizzati, il lettore straniero faticherà forse a rendersene conto, ma Manaraga è un tour de force centrato sul mitico letteraturocentrismo russo nel quale non compaiono né russi né Russia. Géza è un ungherese, con sangue ebreo, bielorusso e tataro, che ha imparato un po’ di russo scritto sui libri che brucia: ormai è una lingua morta, dopo i cataclismi e le migrazioni che hanno travolto il Titanic postsovietico nessuno lo parla più.

Il primo libro senza Russia è anche, cosa ancora più sorprendente per Sorokin che è il principe degli stilizzatori, il primo libro con un narratore: la voce è quella di Géza, che ogni sera in una diversa città del mondo racconta i suoi viaggi e le sue cene con tono pacato, equilibrato, risoluto, e pur aspirando alla neutralità stilistica non può non lasciar trapelare un po’ di malinconica impulsività unita a inclinazioni omosessuali e masochistiche. Nessun pericolo, però, di monotonia: bruciare testi è l’ulteriore ed estremo innesco di un meccanismo di scatole cinesi citazionali. Da frammenti di testo scampati alle fiamme alla leggendaria scena dell’Idiota in cui Nastas’ja Filippovna getta centomila rubli nel camino, da una parodia del neofascismo alla Prilepin all’autocitazione dell’opera I figli di Rozenthal sul videocircuito interno nel camerino della cliente primadonna. Ma l’esempio più funambolico di pluralità dei piani testuali è il cliente norvegese che, nel generale rimodellarsi chirurgico-genetico, si è fatto sosia di Tolstoj e si fa cucinare delle polpette rigorosamente vegetariane sul testo pseudotolstoiano appena finito di comporre, firmato Lev Tolstoj e intitolato Tolstoj, con per protagonista un Tolstoj contemporaneo – gigante di oltre tre metri con un mammuth nella sporta – che predica il tolstoismo ai contadini e inserisce come ulteriore testo nel testo una stilizzazione di un racconto tolstoiano per l’infanzia.

Le due vere vette intertestuali del libro sono per la verità entrambe novecentesche. All’idea compositiva stessa può aver offerto la scintilla una celeberrima citazione dal Maestro e Margherita di Bulgakov: «I manoscritti non bruciano». Non varranno a smentirla tutta la maestria e la scienza di Géza, precipitate in un clamoroso fiasco di fronte alla beffarda energia sulfurea del libro, che smette di bruciare esattamente alla scena del ristorante il cui menù si tentava di riprodurre sul braciere. Ada di Nabokov è invece il libro ideale per l’universo cosmopolita dei cuochi, adatto a specialisti in cucina americana, russa, svizzera, francese, e non a caso finirà in un milione di copie nel ventre della montagna. Nel titolo russo del libro è forte l’eco dell’Ade greco, ma è omesso or Ardor, che invece Denise Silvestri recupera brillantemente in italiano (nel complesso la sua è una resa davvero perspicace e coerente).

Tra le oltranze più curiose, anche un tentativo di scrittura «automatizzata», quando, all’insaputa del lettore e con brusco cambio stilistico, la pulce intelligente che vive nel cervello di Géza si prova a usurpare il ruolo del narratore. Trattate come teneri animaletti domestici – ne ha un’altra tra i capelli, una nel lobo dell’orecchio – queste eredi miniaturizzate degli odierni smartphone tutto sanno del presente, del passato e dell’ambiente circostante, ovunque proteggono e guidano il loro proprietario. L’intelligenza artificiale non è più solo in competizione, ma si sovrappone fisicamente a quella umana, in una dirompente prospettiva, per il momento abbastanza marginale, ma foriera di sequel nella saga distopica di Sorokin. In Manaraga alle pulci intelligenti resta un ultimo compito d’acrobazia narrativa: inserire un falso happy end nel continuum verbale del narratore.