Sorprende sempre per chi ha frequentato il liceo prima del ’68 in cui ti davano del lei perché eri la futura classe dirigente, vedere in che stato è ridotta la scuola e ancora di più lo sconforto dei professori (già Luchetti ce ne ha offerto lo scenario dalle cronache di Starnone). Ma anche cogliere un identico tipo di sensibilità incandescente degli adolescenti di qualunque epoca, pronti comunque a contrapporsi al «sistema». In ogni caso: «Benvenuto nel XXI secolo», annuncia la preside di Class Enemy (titolo originale: Razredni Sovraznic) all’austero professore di tedesco, e aggiunge: «prima loro temevano noi, ora noi temiamo loro». Siamo in un liceo sloveno e da quelle mura non usciremo fino alla fine del film.

Realizzato dall’esordiente Rok Bicek non ancora trentenne, accolto con grande favore alla Settimana della critica di Venezia dello scorso anno, rappresentante della Slovenia agli Oscar, ricrea un microcosmo in cui interagiscono due diverse generazioni, i professori e soprattutto gli alunni che sono lo specchio della nazione in fieri. La professoressa dall’atteggiamento fin troppo amichevole come fosse una maestra elementare, se ne va in maternità e al suo posto arriva l’austero professor Zupan interpretato da Igor Samobor, attore famoso in Slovenia anche per il recente serial Terapija (un adattamento dal format In Treatment) in cui interpreta lo psicanalista Roman, un ruolo che qui gli serve per stemperare in qualche modo una severità che appare esagerata. Pretende perfino che nella sua ora gli si parli in tedesco, rispetto a quel parco giochi perenne in cui sembra trasformata la scuola (il bar, la radio, le feste…)

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Quando un’alunna dall’aria sempre assente e malinconica si suicida, la classe in maniera feroce si coalizza contro il professore soprannominato «il nazista» accusandolo di essere responsabile del gesto proprio a causa della sua durezza. Si mobilita compatta contro un nemico ed è proprio questo aspetto ad essere espresso in maniera interessante perché segue un criterio di psicologia di gruppo che può essere esteso ad altri ambiti della società (la guerra ormai finita da un pezzo aleggia sullo sfondo del film) quando si svegliano istinti primitivi, poco educati a distinguere le sfumature.

Bisogna dire che nelle cinematografie dell’est è stato uno stereotipo assai frequentato mettere in scena la morte di un amico per far scattare problematiche di responsabilità e occasione di maturazione adolescenziale, costante dei romanzi di crescita al cinema. Così in Class Enemy questo è il punto di partenza, poi i ragazzi non fanno i conti con le loro responsabilità se non quando sono messi con le spalle al muro, a rischio di perdere l’anno, mentre tutta la carica emotiva è indirizzata a individuare il nemico, metterlo sotto processo, rendergli la vita impossibile.

I ragazzi non guardano neanche più alla realtà delle cose, si procede per stereotipi: «Ci mancherà la tua allegria, il tuo sorriso» ripetono, una frase fatta che non si addice per niente alla cupa compagna di scuola.
I genitori convocati all’ennesima infrazione alla condotta ripropongono gli stessi comportamenti come a mostrare che il processo di maturazione anche per loro è rimasto bloccato a un certo punto. Sedersi nuovamente sui banchi di scuola certo non aiuta, fa scattare tra alcuni di loro che un tempo furono compagni vecchie rivalità).

Anche il regista ha lasciato la scuola poco tempo prima: un po’ racconta episodi della sua esperienza scolastica, riprende figure di professori, il primo della classe che è simile dappertutto, una calamità, imbranato nello sport, seduto al primo banco e qui si chiama anche Primus, un po’ fa la morale, ma soprattutto costruisce con questi materiali un meccanismo che supera le mura dell’edificio scolastico per entrare nel vivo delle dinamiche della società con le sue pulsioni di aggressività più o meno represse.