Lo sforzo a contenere la pandemia è, in gran parte, manifestamente improvvisato a livello planetario e impostato, per forza delle cose, su misure piuttosto primitive. La frammentazione dei dati scientifici, lo scarso coordinamento tra gli esperti (che non coincidono con i virologi, in grado di vedere solo una parte del problema), lo smantellamento della sanità pubblica in quasi tutti i paesi del mondo e la mancanza di strumenti preventivi attendibili (a causa dell’ormai cronica dipendenza della ricerca dalla logica del profitto), impediscono che le misure restrittive seguano una logica rigorosa di selezione dei soggetti da proteggere. Rendono, inoltre, arduo il trattamento delle persone ammalate. La politica, già da tempo impotente di fronte al fenomeno della globalizzazione economica (che l’ha travolta), ed evidentemente spaesata, insegue affannosamente gli eventi, cercando di fronteggiare i danni immediati, ma è incapace di prevedere i danni futuri, sperando che, a tempesta passata, tutto torni come prima.

Nel vuoto di una risposta politica (da non confondere con l’amministrazione dell’esistente) si è insediata la lotta contro il “negazionismo”. Il termine “negazionismo” è stato usato, del tutto impropriamente, per designare il “diniego” (in psicoanalisi il rigetto della percezione/evidenza di un fatto reale) nei confronti della Shoah. In realtà, il diniego dello sterminio più aberrante della storia (la soppressione affettivamente indifferente e impersonale di milioni di persone) è un derivato della soppressione dell’umano da parte dei nazisti (che inizia dal loro mondo interno). Di ciò che non deve esistere, non si può registrare la morte. Non l’hanno registrata i carnefici (se non come fatto logistico), non la registrano i loro apologeti. Il reato di “negazionismo” doveva essere definito come “apologia di crimine contro l’umanità”. Il fatto che così non è stato misura la nostra difficoltà di vedere oltre la concretezza dei dati.

La concretezza sta oscurando la nostra vista anche nel modo di gestire psichicamente e operativamente la pandemia. Invocando la paura contro chi nega di sentirla, si crea un conflitto in cui entrambi i fronti, assecondandola o esorcizzandola, la rendono padrona della nostra vita. Già la paura fisiologica nei confronti del Covid (che ha un indubbio fondamento reale) supera la sua funzione prudenziale (“attento/a a non”), perché il contagio, l’ammalarsi e l’esito sono imprevedibili. Quando la paura perde il suo legame con la prudenza, che ne fa da contenitore, produce destabilizzazione psichica. Ad essa si aggiunge allora un’angoscia supplementare (riguardante la tenuta del nostro apparato psichico). Se non si fa nulla per ritrovare l’aggancio con la prudenza, le risposte possibili sono due opposti: il compattamento in un assetto difensivo generalizzato nei confronti della realtà e il diniego del pericolo (uno “stabilizzatore” psichico, è risaputo). Entrambe le risposte sono imprudenti.

Sia l’eccesso dell’angoscia di morte, sia l’atteggiamento trasgressivo (che incentivati da un’informazione troppo incalzante e contraddittoria si riflettono l’uno nell’altro) emarginano il pensiero critico e sono un pericolo per la democrazia: portano all’invocazione di poteri forti. La loro contrapposizione che conforma il confronto sul rischio rappresentato dalla pandemia allo scontro fuorviante tra “realisti” e “negazionisti”, nasconde un secondo diniego, quello più importante e pericoloso. Il diniego dell’assenza catastrofica di un governo democratico, lungimirante e saggio, del mondo, dell’eclissi della visione globale in una realtà violentemente globalizzata, del vivere intrappolati nella necessità, nello stato d’eccezione prodotto da una logica permanente di emergenza. Per ritrovare la prudenza smarrita bisogna uscire dalla cecità, l’evidenza che nasconde, non fa vedere.